La morte di Marco Pantani. Un fulmine. Il pirata non sapeva nuotare. Io l’ho vissuta, questa morte, come vissi quella di Fausto Coppi, nel gennaio del 1960: con uno sgomento infantile, aggressivo alla bocca dello stomaco. Ho visto il Processo di Biscardi con le lacrime agli occhi. Frasi smozzicate, insensate, umanissime, vergate a mano nel gelo dell’aria calda condizionata. Nel 1998, quando il pirata volava, feci carte false, inventai scuse indegne, mentii sapendo di mentire, disdissi appuntamenti solenni, fissati da mesi: tutto per non perdermi nemmeno una delle sue tappe. Ci riuscii. E battevo le mani, da solo, felice. Volava, il pirata, ma non sapeva nuotare. Gli occhi rapaci che si chiudono, le orecchie a sventola che diventano di cera. Quel giorno che, per una specie di incredibile telepatia, il telecronista gli gridò “Vai Marco, è questo il momento!!” e lui si alzò sui pedali e dette dieci minuti a Ulrich… E quel giorno che, a Parigi, Gimondi gli alzò verso il cielo il braccio coperto di giallo vivo. In piedi, a battere le mani da solo; inguaribilmente bambino di fronte al gesto atletico che coniuga potenza e intelligenza e sofferenza. Pantani, fratello ieri dei pochi uomini che nella vita sfondano, volano, vincono. Fratello oggi dei tanti uomini che nel gorgo della vita ci si affogano. Quanti ne ho conosciuti e amati? Lucio, Giulivo, Duccio, tutti giovani. E i cinque membri della mia Comunità, nei primi 25 anni della sua vita: Roberto che dopo tanti anni aveva ritrovato il padre e il padre lo aveva respinto; Ettore che all’improvviso, in ospedale, decise di ricominciare a bere e il fegato gli scoppiò, in ospedale; Mariolina che aveva appena saputo che non avrebbe potuto avere figli, e smise di assumere farmaci contro le infezioni, e la setticemia la uccise. Erano anche loro, a modo loro, dei pirati. Avevano scollinato tante volte la montagna della loro disabilità. Come Marco. Ma come Marco non sapevano nuotare. Il mondo è pieno di pirati che non sanno nuotare. C’è chi ha scritto che della salvezza eterna di un suicida che si butta dal ponte si può non disperare, perché la misericordia di Dio utilizza quei secondi tremendi per raggiungere quell’anima Io dico che non si può disperare, perché loro, i pirati che non sanno nuotare, in quel momento hanno vicino a sé, vicinissimo, a vivere il loro stesso stato d’animo, Gesù di Nazareth. Quel giorno, quando il profumo sottile della tenera luna del novilunio di primavera era già nell’aria, Lui si sentì abbandonato da quel Padre al quale s’era affidato. E lo gridò. Un grido atroce e dolcissimo, che bucò il cielo e rivelò alla vita il suo vero volto. Era anche il grido della disperata speranza dei suoi fratelli/pirati che non sanno nuotare.