Probabilmente non c’è nessuna altra parte dei vangeli che sia stata sottoposta a tante interpretazioni diverse come il brano il discorso in pianura di Luca, meglio noto nella versione matteana del discorso della montagna. Riserviamo al prossimo commento alcuni cenni alle varie letture possibili, e ci concentriamo oggi invece sul rapporto tra beatitudini e guai. Le beatitudini di Luca infatti – diversamente da quelle di Matteo (Mt 5,3-11) – sono accompagnate da guai. Questi ultimi servono a spiegare le prime, le presuppongono e sono la loro controparte, cosicché le beatitudini sono poste su uno sfondo negativo e risaltano meglio.
Cosa succede se estrapoliamo i guai dal contesto e li isoliamo? “Guai ai ricchi, guai a coloro che sono sazi, guai a chi ride…” Se non fossero di Gesù, davvero potremmo pensare che queste parole vengono da un rivoluzionario. O da qualcuno che non sa godersi la vita, che non riesce a gustare le gioie del mangiare, che non tollera che gli altri siano allegri e ridano. Soffermiamoci su quest’ultima idea: sarebbe terribile se avessimo in mente un cristianesimo “triste”. Al contrario, “il cristianesimo è la religione dell’amore, in cui il dovere è integrato e oltrepassato. Per questo è anche la religione della gioia. Non a caso la figura letteraria della “beatitudine” è piuttosto frequente nella Bibbia” (La verità vi farà liberi. Catechismo Cei degli adulti, 852).
Beati senza condizioni. Le beatitudini nell’Antico Testamento – soprattutto nella letteratura sapienziale – sono quelle indicazioni, quei segnali, che vengono dati da Dio perché l’uomo giunga al traguardo della felicità: “beato l’uomo che non cammina in compagnia dei malvagi e nella strada dei peccatori” (Sal 1,1). Se si seguono le indicazioni, si sarà felici; se si preferisce un’altra strada, iniziano i guai. Anche nel Nuovo Testamento si incontrano molte beatitudini: solo in Luca ne sono elencate quindici, due in più rispetto a Matteo. Nelle beatitudini del discorso della montagna però – rispetto al Primo Testamento – vi è qualche significativa differenza. Gesù non sembra porre condizioni alle beatitudini. Dichiara già felici coloro che sono in una determinata situazione, e non dice, ad esempio, “siate poveri”; si rivolge – dichiarandolo beato – a chi povero già lo è. “Il macarismo di Gesù non formula nessun comportamento previo come condizione per essere dichiarato beato” (Rossé).
La differenza di senso è importante. Gesù annuncia sì una felicità, ma una felicità paradossale, che c’è, ma è difficile da cogliere subito, a prima vista, con gli “occhi” del mondo. Le beatitudini, per Gesù, come i guai, non sono innanzitutto un invito ad un’etica da mettere in pratica: sono l’annuncio di una novità, un modo nuovo di vivere la vita e di pensarla, perché tutto è visto in rapporto a Dio, cioè al suo Regno. Gli occhi della fede. Come riuscire a vedere le beatitudini nei poveri, negli indigenti, nei sofferenti, nei perseguitati? O meglio ancora: come possiamo anche noi, nelle nostre personali povertà, nelle nostre sofferenze, ecc., riconoscerci beati? Cosa permette di leggere una situazione e di giudicarla come benedetta e non una maledizione, una disgrazia? La beatitudine “funziona” solo per chi ha fede. Lo sguardo di fede salva la nostra vita. Per usare un’immagine molto importante per la teologia della rivelazione, potremmo dire che servono gli occhi della fede (P. Rousselot, Les yeux de la foi, 1910; trad. it. Gli occhi della fede, Milano 1974).
Nella fede c’è la possibilità di vedere in un modo diverso. La fede rende capaci gli occhi di cogliere ciò che altrimenti rimane sotto la superficie. Rousselot scriveva che come un detective cerca nella realtà quegli indizi che lo portano a trovare la soluzione al suo problema, allo stesso modo il credente può, in forza della grazia, riconoscere quei segni che Dio pone nella sua vita. Senza la grazia si vede il fallimento, la morte, la fame, la disperazione. Con la fede si vede in essi, nonostante tutto, la presenza di Dio. È allora chiaro perché Gesù non pone condizioni all’essere beati. Solo una è la condizione previa: credere alla sua Parola. La beatitudine dell’ascolto. Ecco forse perché Luca ci trasmette – lui solo – la beatitudine degli ascoltatori della Parola, in Lc 11,28: “Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la custodiscono”.
È l’unico modo per accorgersi della beatitudine nelle varie situazioni della vita: ascoltare e custodire la parola e i segni di Dio, come Maria per prima ha fatto. Poveri, indigenti, nella sofferenza, perseguitati. Il primo paradosso, la prima beatitudine dell’elenco, sia in Luca sia in Matteo, è l’annuncio della felicità ai poveri. “Gesù proclama beati gli ultimi della società, perché sono i primi destinatari del Regno. Proprio perché sono poveri e bisognosi, Dio nel suo amore gratuito e misericordioso va loro incontro e li chiama ad essere suoi figli, conferendo loro una dignità che nessuna circostanza esteriore può annullare o diminuire: né l’indigenza, né l’emarginazione, né la malattia, né l’insuccesso, né l’umiliazione, né la persecuzione, né alcun’altra avversità. Anzi, una situazione fallimentare può riuscire addirittura vantaggiosa” (La verità vi farà liberi, 131).
Guai ai ricchi, invece, quando sono schiavi delle ricchezze, quando ripongono in esse la sicurezza della vita e ritengono che il loro essere dipenda dall’avere (cfr. Lc 12,15). Vedere la beatitudine nella povertà e nella fame non ci lascia comunque tranquilli o senza dolore. La fede, la fiducia in Dio, come scrive il Manzoni, non basta a tenere lontani i problemi: piuttosto “li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore”. Ma quando vediamo l’altro nel bisogno, ci dobbiamo sempre domandare perché: quelli che oggi hanno fame e piangono, probabilmente lo sono anche a causa di coloro che ora sono saziati e ridono.