Non vuole dare spazio all’allarmismo ma il segretario regionale della Cisl, Pierluigi Bruschi, riconosce che l’industria umbra “ha seri problemi”. Non c’è solo la situazione dell’Ast di Terni con il rischio della chiusura della produzione del magnetico con il licenziamento di 900 persone “nonostante sia un settore all’avanguardia per l’innovazione e rappresenti l’unico stabilimento in Italia che produce lamierini magnetici”. Bruschi lancia l’appello, “l’ultimo”, per la concreta applicazione del Patto di sviluppo per l’innovazione dell’Umbria che aveva individuato le modalità per superare le difficoltà del sistema economico attraverso la finalizzazione delle risorse comunitarie, per servizi migliori e per un nuovo rapporto con l’Università. “C’è stato un momento, qualche mese fa, in cui si era fermato tutto. Poi, anche con la nostra sollecitazione, si è ripartiti con accordi in cui è precisato cosa andava realizzato nei territori. Ma entro pochi mesi bisogna procedere altrimenti si rischia che il progetto non sia più credibile”. Bruschi ricorda la differenza della tipologia industriale nelle due province. “A Perugia c’è un tessuto molto frantumato in settori tradizionali e con poco valore aggiunto – ha sottolineato – nel ternano è forte la presenza delle multinazionali”. Il segretario regionale della Cisl ritiene importante “favorire relazioni industriali più avanzate per prevenire fattori di rischio” attraverso azioni convergenti tra istituzioni, imprese e organizzazioni sindacali. Secondo Bruschi dal 2003 si è registrata, anche per la congiuntura internazionale, “un fermo generale. Ne ha risentito l’impresa in settori molto competitivi dove c’è una forte concorrenza ed è mancata la necessaria innovazione. Le multinazionali non dovrebbero avere questi problemi. Ma si fa la scelta di convenienza in assenza di regole a livello internazionale. Il ruolo del sindacato? Nella lotta siamo maestri, non abbiamo certo debiti da recuperare in questo settore. C’è invece una scarsa contrattazione di secondo livello, territoriale. Ci siamo solo nelle aziende di medie e grandi dimensioni”. (R.C.) L’industria regionale conta su 20mila imprese e contribuisce per il 30%. Solo 43 aziende con più di duecento dipendentiAziende umbretra piccolo e globalTraTrafomec nella Valnestore, Petrini e Hemmond a Bastia Umbra, Ferro a Cannara, Viasystem a Terni, Rasimelli e Coletti a Perugia, General Avia a Passignano sul Trasimeno: ecco i nomi di alcune aziende, dislocate nel territorio regionale, che negli ultimi due anni hanno subito crisi profonde, con centinaia di lavoratori che sono stati messi in mobilità e cassa integrazione. Ci sono piccole e medie imprese ma anche siti produttivi che fanno parte di multinazionali. Le prime hanno risentito della fase critica a livello nazionale ed internazionale. Nel secondo caso, le scelte sono apparse incomprensibili ai più (lavoratori e istituzioni), perché, come nel caso della Ferro di Cannara, l’azienda era economicamente valida e competitiva sul mercato. In qualche caso c’è stato l’intervento degli ammortizzatori sociali, d’altra parte si è assistito al cambio di proprietà e a soluzioni prospettate dalla finanziaria regionale Sviluppumbria. L’industria umbra conta su circa 20 mila imprese, divise tra il comparto manifatturiero e quello delle costruzioni. Gli addetti nel settore industriale sono 107 mila (24 mila dell’edilizia) e l’industria contribuisce per il 30 per cento alla formazione del valore aggiunto regionale. Il 28 per cento degli addetti alle attività produttive opera in aziende con meno di tre dipendenti e solo 43 aziende hanno più di 200 dipendenti. In Umbria c’è un’azienda ogni nove abitanti. Il settore industriale sembra segnato dalla crisi. La decisione della Thyssen Grupp, al momento rinviata, di chiudere il settore magnetico dell’Ast, si inserisce in un panorama poco incoraggiante. Nel 2003 più volte è risuonato l’allarme sulla situazione industriale di piccole e medie imprese con molti comparti in “sofferenza” come la siderurgia, la meccanica, la chimica, il tessile, la ceramica e l’agroalimentare. E difficilmente si potrà salutare con soddisfazione, come lo scorso anno, il dato di disoccupazione, riferito ai primi nove mesi del 2002, che si attestava al 5,2 per cento, inferiore di quasi 4 punti a quello nazionale. L’economia umbra appare stagnante (nel 2002 era cresciuta di appena lo 0,5 per cento rispetto al precedente anno) e forse si sono poste tante, magari troppe, aspettative sul patto per lo sviluppo e l’innovazione e la convergenza degli obiettivi sanciti da quell’accordo. Servono altri “fattori di progresso”, come una più moderna dotazione di strade, ferrovie e logistica, un fattore che da anni colloca l’Umbria poco al di sopra dei livelli delle regioni meridionali sul fronte del livello delle infrastrutture. Anche se per superare questo isolamento, la Regione si è impegnato a fondo per invertire la rotta.
Bruschi (Cisl): L’industria umbra ha seri problemi
AUTORE:
Romano Carloni