Norberto Bobbio e la filosofia del dialogo

Uno dei filosofi più rilevanti del ‘900 italiano, Norberto Bobbio ha lasciato un’eredità che si può sintetizzare in tre aspetti essenziali. Il primo riguarda la sua opera di studioso dei classici del pensiero politico, di alcuni dei quali ha lasciato edizioni che sono esse stesse diventate col tempo altrettanti ‘classici’. Tra gli autori su cui ha compiuto studi fondamentali basti ricordare Hobbes, Locke, Kant, Hegel, Marx, Kelsen, Catteneo. Quella di Bobbio -secondo aspetto- è stata peraltro non una filosofia accademica, ma una ‘filosofia militante’, sviluppatasi a stretto contatto con la vicenda storica. In tale contesto non c’è dubbio che il suo contributo maggiormente significativo sia consistito nell’ininterrotta riflessione sul problema della democrazia. Sulla scia di Kelsen, Bobbio ha sviluppato una teoria proceduralistica della democrazia che, sebbene criticata e criticabile, ha almeno avuto due meriti innegabili: da un lato, di mettere in evidenza, fin dagli anni ’50 nelle sue polemiche con Della Volpe e Togliatti, gli equivoci della concezione marxista (tema poi ripreso, in un diverso contesto culturale, negli anni ’70); dall’altro di evidenziare, contro visioni moralistiche della democrazia (non rare almeno fino a qualche tempo fa anche nell’ambito delle culture politiche di matrice cattolica), l’importanza delle ‘regole del gioco’ come elemento distintivo di tale regime politico. Nucleo-guida della sua riflessione è stata sempre l’idea di una democrazia che sapesse coniugare libertà civili, libertà politica e giustizia sociale (e qui è risultato decisivo l’apporto dell’esperienza azionista) e che potesse diventare modo di organizzazione non solo della sfera statuale, ma dell’intera società. Ha sempre rifiutato, in nome di un severo realismo, le versioni utopistiche della democrazia, ma non ha mai rinunciato a considerare l’ampliamento della partecipazione e la diffusione del dialogo come gli ideali regolativi cui la democrazia deve attenersi se non vuol venire meno alle sue ‘promesse’. Per questo, pur prendendo nettamente le distanze dalla culture politiche intolleranti, ha sempre cercato di praticare, anche con esse, il dialogo, ritenendo che quest’ultimo sia l’unico strumento (se strumento c’è) per portare anche il non-democratico su posizioni compatibili con la libertà. Nel dialogo ha intravisto (si ricordi la sua familiarità, pur nell’ambito di un’ispirazione culturale profondamente diversa, con Capitini) anche la via per la pace, obiettivo difficile ma non impossibile. Il terzo aspetto concerne il suo impegno più diretto nel dibattito politico: impegno diretto, ma sempre alla dovuta distanza, perché sapeva che la coerenza dello studioso rischia di essere intaccata da un’eccessiva vicinanza con il potere (cosa che, com’è noto, gli studiosi dimenticano sovente e volentieri). Ha criticato, lo si è detto, l’allora partito comunista, e lo ha fatto partendo dalla sua fede laica nella libertà; per questa stessa fede ha criticato, in anni recenti, nella politica berlusconiana, la concentrazione dei poteri economici e mediatici, il populismo-movimentismo intimamente autoritario, il progetto presidenzialistico così com’è stato elaborato da questa parte politica. Sono cambiati (e di molto) gli obiettivi, non è mai cambiato il motivo ispiratore. Così come non è mai cambiata la serietà dell’uomo, oltre che dello studioso, quella serietà che oggi, in un tempo di evanescenza, di superficialità, di pressappochismo elevato ad arte di vita (e di comportamento accademico e politico), forse resta una delle parti più importanti del suo lascito spirituale oltre che teorico. La sua laicità è stata certo qualche volta attigua a un laicismo non privo di insofferenze (ma non ha esitato ad assumere una posizione fortemente critica nei confronti della proposta abortista), la sua concezione proceduralistica della democrazia si è rivelata a parere di alcuni critici incoerente, il suo realismo è stato forse eccessivo e lo ha condotto talvolta a minimizzare la portata delle ‘promesse’ mantenibili della democrazia. Ma non ha mai rifiutato il confronto e lo insegnato a molti, indicando anche la condizione imprescindibile perché possa essere vero dialogo: che si parli con cognizione di causa -ovvero, sapendo le cose, studiando (altrimenti non si dialoga, si chiacchiera)-, e con onestà. Per questo gli dobbiamo un rispettoso ricordo, in ciò che ci ha diviso e in ciò che ci ha unito.

AUTORE: Roberto Gatti