La prima prospettiva per leggere il brano del vangelo di oggi è proprio quella data dalla sua collocazione liturgica nella II domenica del tempo ordinario: il racconto dell’acqua mutata in vino è in accordo con i temi trattati nelle due memorie appena precedentemente celebrate (Epifania e battesimo di Gesù). Così, infatti, recita l’antifona al Magnificat del Vespro dell’Epifania: “Tre prodigi celebriamo in questo giorno santo: oggi la stella ha guidato i magi al presepio, oggi l’acqua è cambiata in vino alle nozze, oggi Cristo è battezzato da Giovanni nel Giordano per la nostra salvezza, alleluia”. Siamo, ci dice allora la Chiesa, nel regime dei segni-prodigi. L’inizio dei segni. Leggiamo che “Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea” (1,11).
La traduzione Cei attualmente usata nella liturgia è già stata corretta dalla “nuova” versione Cei del 1997, dove si trova – al posto di “miracoli”, “segni”: “Questo fu, a Cana di Galilea, l’inizio dei segni compiuti da Gesù”. Giovanni infatti non conosce i termini che i sinottici usano per “miracolo”, dynamis e teras, ma usa 17 volte semeion “segno”: questa è, nel quarto vangelo, una parola tecnica che “fa parte della terminologia religiosa biblica per indicare l’attività rivelatrice e salvifica di Dio a favore del suo popolo. […] I segni sono fatti e gesti compiuti da Gesù attraverso i quali egli può essere riconosciuto come l’inviato definitivo di Dio, perché in essi traspare la sua gloria” (Fabris).
Quali segni? I segni indicati dal Vangelo di Giovanni sono – abbiamo visto sopra – tanti da non poter essere qui analizzati. Seguendo l’antifona liturgica a cui ci riferivamo, e facendo un salto negli altri vangeli, scopriamo però che il segno di Cana deve avere a che fare con le altre due manifestazioni di Gesù, quella di Betlemme e quella del Giordano. Nella prima il segno è chiaramente indicato da Luca (2,7.12.16): un bambino avvolto in fasce e in una mangiatoia; nella seconda epifania il segno è quello di un uomo come noi, in fila con i peccatori. Certo: la stella, i sapienti dall’oriente in un caso, il cielo che si apre, la voce dal cielo nell’altro: dettagli fortemente simbolici, che però ci lasciano intravedere una realtà molto più semplice. Il segno più grande è ancora una volta quello dell’umanità del figlio dell’uomo, riconosciuta la quale si riconosce anche il Figlio di Dio prediletto. Il segno di Cana. Una situazione conviviale, la gioia dei partecipanti al banchetto, il vino, l’acqua.
L’amore umano: quello che lega la madre di Gesù al suo figlio, e quello che unisce lo sposo alla sposa. Ciò che manca alla tavola di Cana però è il vino della festa. Tutto parte allora da una assenza. La mancanza è l’esperienza antropologica tra le più comuni: ci manca sempre qualcosa. Non (solo) nel senso moderno, potremmo dire “consumistico”; certo, la nostra è la società dei bisogni, che ci insegna sin da piccoli a rispondere prontamente ad ogni minima esigenza. Ma qui c’è qualcosa di più: ciò che sembra mancare veramente è segnalato come essenziale alla festa stessa. Nella mentalità biblica il vino non è qualcosa di accessorio, ma ‘una delle immagini costanti dell’Antico Testamento per esprimere la gioia dei giorni finali (Am 9,13-14; Os 14,7; Ger 31,12) (Brown).
È forse per questo motivo che a rendersi conto di questa mancanza non è chiunque, ma la madre di Gesù? Infatti, se vogliamo stare al testo, nessuno si accorge che manca qualcosa, se non Maria, e nessuno – ormai compiuto da Gesù il segno – si accorge che l’assenza è stata colmata (i servi sanno solo da dove viene il vino), se non i discepoli. La differenza tra l’apertura dell’episodio e la sua conclusione – ciò che è cambiato – risiede in queste due sottolineature: 1) la bontà eccellente del vino; 2) la fede: “e credettero in lui i suoi discepoli” (2,11). La seconda è la più importante. La bontà del vino “nuovo”, e la frase di Maria, !non hanno più vino!, è diventata occasione, da alcuni padri sino ai moderni, per vedere nell’episodio di Cana !una pungente riflessione sulla sterilità delle purificazioni giudaiche! (Brown): Gesù darebbe il vino nuovo (il Vangelo) al posto dell’acqua (la legge – l’Antico Testamento).
Non mi sembra che questo ci sia nel testo. Tanto più che il vino buono, di cui parla il maestro di tavola, è lo stesso che si beveva anche prima: “Tu hai conservato fino ad ora il vino buono” (2,10). C’è piuttosto da sottolineare l’aspetto della fede. Discepoli, con Maria. Qualche commentatore ha notato l’ordine con cui compaiono i personaggi sulla scena (vv. 1.2: la madre; Gesù; i discepoli) e poi come ad essi si aggiunga un gruppo quando ne escono (v. 12: Gesù; la madre; i fratelli; i discepoli). I discepoli, gli unici che – con Maria – vedono nel segno un segno che li porta a credere, sono coloro da cui nasce la comunità messianica. Di questa comunità nuova di “fratelli” la madre è Maria: la stessa che diventerà, quando consegnata da Gesù dalla croce, la madre dei credenti: “Ecco tua madre”. Maria è l’esempio della fede cristiana. “Mysterium fidei!” scrive Giovanni Paolo II .
Con la premura materna testimoniata alle nozze di Cana, Maria sembra dirci: “Non abbiate tentennamenti, fidatevi della parola di mio Figlio. Egli, che fu capace di cambiare l’acqua in vino, è ugualmente capace di fare del pane e del vino il suo corpo e il suo sangue, consegnando in questo mistero ai credenti la memoria viva della sua Pasqua, per farsi in tal modo pane di vita” (Ecclesia de Eucharistia 54). Il segno dei segni. Il segno di Cana è molto umile, come il bambino avvolto in fasce, come l’uomo che passa il Giordano, come la tomba vuota. Lì, alla fine del Vangelo, l’assenza più grande. La mancanza segnala la risurrezione di Gesù e la sua presenza in un altro modo. Nessuno si accorge che manca il vino: solo Maria; non si riconosce il Risorto se non nella fede.