Il cristianesimo introduce importanti novità nella cultura romana e greca su cui si fondava l’impero romano. Svolge la funzione storica del collegamento, nel medioevo, tra la classicità e il nuovo mondo che si formerà dalla dissoluzione dell’impero romano (non ultimi in questa funzione sono gli ordini monastici); poi introduce l’universalismo, che in Grecia manca, almeno fino alla crisi della polis, e che in Roma, quando c’è, assume la forma dell’ imperialismo politico e culturale. La pax christiana raccoglie e muta alle fondamenta la pax romana innervando in essa i contenuti della carità e dell’amore (Prudenzio). Universalismo significa che gli uomini sono uguali in quanto figli di uno stesso Padre, il cui Figlio è venuto al mondo per portare e tutti la salvezza. Da ciò deriva che, se la persona ha il suo fondamento in Dio, essa eccede ogni realtà mondana e da qui nasce la duplice idea, sconosciuta ai Greci e anche in parte ai Romani, dei limiti della politica (basta ricordare il principio evangelico del “Date a Cesare”) e dei diritti che ogni persona può rivendicare come antecedenti l’autorità politica e come confini invalicabili rispetto ad essa, e pone la basi, come ha ricordato Maritain, dell’idea moderna dei diritti dell’uomo, idea che risulta da una secolarizzazione della concezione cristiana ed è semplicemente incomprensibile senza lo sfondo di questa concezione. Ma per il cristianesimo il legame dei membri della comunità politica è l’amore, che diventa criterio del rapporto tra Dio e l’uomo e degli uomini tra loro, la giustizia configurandosi ora come misura minima dell’amore e quindi anch’essa finendo per essere, contemporaneamente, ricostituita in una dignità diversa e più circoscritta (e allo stesso tempo più alta) rispetto a quella classico-pagana (Agostino e Tommaso qui sono punti di riferimento essenziali). Con la modernità (sec. XXX) matura l’evento decisivo della frattura dell’unità religiosa e politica dell’Occidente europeo, ma con il permanere di una unità culturale di fondo, quell’unità culturale di cui è stato testimone forse insuperato Erasmo da Rotterdam e le cui radici risultano dalla fusione di apporti greco-romani, germanici e cristiani. Il punto da sottolineare qui è che la fine dell’unità politica e religiosa è, non paradossalmente, anche l’epoca in cui inizia la grande sfida del cristianesimo nella modernità, cioè la prova di riuscire, senza più (o con sempre meno) strumenti legati al potere temporale, a fermentare la civiltà europea nel contesto del pluralismo ormai riconosciuto e istituzionalizzato delle professioni di fede, degli orizzonti morali, ecc.. L’opposizione emblematica, ma troppo spesso dimenticata, tra gesuiti e giansenisti segna i termini essenziali di questo problema già dal Seicento, ed è ancora oggi attuale: da un lato (i gesuiti) troviamo lo sforzo di incarnare nella storia moderna i valori cristiani, in un dialogo aperto con la modernità, ma anche con il pericolo, storicamente sperimentato, che il compromesso con il “mondo” arrivi a far smarrire la coscienza dell’eccedenza del messaggio cristiano rispetto alla dimensione storica; dall’altro (i giansenisti) si presenta la prospettiva del rifiuto intimistico del moderno e il rigetto dell’impegno nella storia. Ancora oggi il mondo cristiano è alle prese con questo problema: come farsi storia, fermentandola, senza identificarsi con la storia? Questa è la condizione che Maritain indicava, anche nella prospettiva dell’unità europea, per evitare l’esito nichilistico della secolarizzazione, del quale i totalitarismi sono stata l’espressione in campo politico. Un dato è, in via di fatto, certo: quando ha dimenticato le sue radici, l’Europa è precipitata nell’orrore concentrazionario. Di questo nessuno, cristiano o no, può evitare di tener conto e su questo siamo chiamati a riflettere in un momento in cui stiamo cercando di costruire un’Europa che dovrebbe fondarsi sul pluralismo delle culture che l’hanno plasmata nel tempo, quel pluralismo che ha una matrice comune persistente, impensabile senza il cristianesimo. In questo senso, che non ha niente di “integralistico” o nostalgico, elidere il riferimento al cristianesimo è semplicemente rimuovere quella che forse oggi è la questione essenziale dell’Europa: da dove viene e dove vuole andare, veramente? Se si intende pensare l’identità culturale europea e anche i fondamenti dei diritti che pure vengono riconosciuti nell’abbozzo di Costituzione, questo è un passaggio ineludibile. Accusare i cristiani di “integralismo” per aver richiesto il rinvio alla matrice cristiana significa non comprendere che integralista è ogni cultura che rifiuta il confronto e il riconoscimento del diverso da sé, spesso facendo semplicemente finta che non esiste, anche quando la sua presenza è un fatto incontestabile, come lo è l’influenza cristiana nella storia dell’Europa (qui basta un manuale di storia a troncare ogni discussione). Alla ricerca dei valori comuni e delle regole condivise da cui muovere per edificare un’ Europa che, in mancanza di principi ideali, si sclerotizzi entro i parametri di Maastricht ogni cultura è chiamata; voler recingere i confini di questa collaborazione e del pari diritto di cittadinanza non solo politica ma anche culturale significa, come ricordava recentemente un vescovo estone, che molti potenziali cittadini della nuova Europa sono destinati a vivere, pur formalmente inclusi nell’unità allargata, come uomini “senza patria”, senza radici appunto. Sono infinite le forme che la discriminazione assume, e non è affatto detto che tutte debbano presentarsi con il volto crudo della violenza: alcune possono vestire quello avvilente della incultura, altre quello sottilmente prepotente del perbenismo alla Giscard.
Le ‘radici cristiane’ antidoto all’integralismo religioso e laico
RADICI CRISTIANE DELL'EUROPA / 3 L'intervento del filosofo Roberto Gatti
AUTORE:
Roberto Gatti