“Gesù chiamò i Dodici, ed incominciò a mandarli a due a due”. Così inizia il brano del Vangelo di Marco che ascoltiamo in questa quindicesima domenica. Gesù li chiamò e li mandò. In questi due verbi (chiamare e mandare) è racchiusa tutta l’identità del discepolo e di ogni comunità cristiana. Queste parole non sono riservate a gruppi particolari o a persone privilegiate. Tutti i cristiani sono chiamati e inviati a comunicare il Vangelo al mondo.
Il Concilio Vaticano II riprende con estrema chiarezza questa missione affidata a tutta la Chiesa: “la Chiesa peregrinante è per sua natura missionaria… e ad ogni discepolo di Cristo incombe il dovere di diffondere, per quanto gli è possibile la fede”. Il cristiano è anzitutto un chiamato; propriamente parlando, non si diviene cristiani per autonoma scelta; lo si diventa per risposta ad una chiamata. C’è infatti, un amore che precede la nostra risposta. Paolo, nello splendido inizio della lettera agli Efesini ci ricorda appunto che è il Signore a sceglierci, prima che noi scegliamo lui: “In Cristo (il Padre) ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità” (Ef 1, 46).
Tutta la tradizione del Primo Testamento, da Abramo in poi, pone Dio all’origine di ogni chiamata; l’iniziativa di avviare la storia della salvezza del popolo d’Israele è tutta del Signore. “Abramo, chiamato da Dio, obbedì”, scrive l’autore della Lettera agli Ebrei (11, 8), indicando ad ogni cristiano il paradigma della fede. Nelle narrazioni delle vocazioni profetiche emerge con chiarezza il primato di tale chiamata. Emblematica è la vicenda del profeta Amos, che ascoltiamo nella prima lettura. Egli è come scaraventato dalla vocazione profetica in un aspro confronto con le ingiustizie del potere politico, e deve scontrarsi con le fredde considerazioni del “cappellano di corte”, il sacerdote Amasia, che lo esorta alla prudenza. Amos ribatte al sacerdote che alla radice delle sue parole non c’è una sua scelta personale legata a prospettive proprie.
È Dio stesso che lo ha costretto con una ben precisa chiamata: “Non ero profeta, né figlio di profeta; ero un pastore e un raccoglitore di sicomòri; il Signore mi prese di dietro al bestiame e il Signore mi disse: Va’, profetizza in mezzo al mio popolo Israele” (Am 7, 1415). Potremmo dire che ognuno di noi era (e spesso lo siamo ancora) raccoglitore di sicomòri. E qui resta. Ma il Signore chiama, e non una volta sola, strappandoci così dal nostro destino. Nessuno però è chiamato per servire i propri interessi e neppure per essere semplicemente migliore e più buono. Il discepolo è chiamato per un servizio: comunicare, con le parole e con la vita, il Vangelo sino agli estremi confini della terra.
E in tale servizio si gioca la sua santità; tanto che Paolo afferma: “Guai a me se non annunziassi il Vangelo” (I Cor 9 16). Tutte le chiamate nella Scrittura sono un invito ad accogliere la missione che il Signore assegna a trascendere se stessi e a valicare i confini più o meno angusti che ciascuno si è tracciato. È naturale per ognuno di noi soccombere alla tentazione di stabilire limiti, possibilmente chiari e definitivi, tra sé e gli altri, tra quello che riteniamo possibile fare e quello che pensiamo non lo sia. Ma questo istinto a tracciare confini nasce dalla paura: vogliamo cioè essere tranquilli e certi, evitando l’ignoto e ciò che non è familiare. Si rassodano così i limiti che dividono e separano gli uomini tra loro: limiti di cultura e di affinità, di età e di classe sociale, di nazione e di appartenenza. E altri ancora.
Per Gesù non è così. Egli ha lasciato persino il cielo per venire in mezzo agli uomini, e non perché fossero giusti, ma proprio perché peccatori e bisognosi di salvezza. Per questo Gesù non può accettare né limiti né particolarismi. Del resto anche il Padre che sta nei cieli “fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Mt 5, 45). L’orizzonte di Gesù è il mondo intero. Nessuno è estraneo alle sue preoccupazioni, neppure il peggiore dei nemici. Per il Signore tutti sono da amare e da salvare. Egli per primo è stato mandato, ed ha obbedito. “Gesù andava attorno per tutte le città e i villaggi insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il Vangelo del regno e curando ogni malattia e infermità” scrive Matteo (9, 35).
Ancora oggi Gesù non cessa di commuoversi su tutte le folle stanche e sfinite di questo mondo, in particolare quelle che vagano come pecore senza pastore. E continua a mandare i suoi, “due a due”, perché continuino la sua opera di annuncio del Vangelo. I suoi discepoli, uomini né straordinari né particolarmente dotati, debbono essere liberi nello spirito e universali nel cuore, particolarmente oggi mentre viviamo in una generazione in cui le distanze tra le persone e i paesi si sono ravvicinate come non mai e tuttavia crescono a grande velocità nuovi muri e nuovi confini, reclamati dall’individualismo e dal particolarismo di singoli e di gruppi, di etnie e di nazioni.Come Gesù non è venuto a salvare se stesso, in modo analogo il cristiano non vive per salvare se stesso (fosse anche la sua anima) ma per salvare gli altri.
Gesù invita i suoi discepoli, di ieri e di oggi, a non prendere nulla con sé, né pane né bisaccia né denaro (bisogna chiedersi cosa sono oggi per noi pane bisaccia e denaro!). Essi, muniti solamente del bastone del Vangelo e dei sandali della misericordia, debbono percorrere, due a due, le vie degli uomini predicando la conversione del cuore e guarendo malattie e infermità. Per entrare nelle case degli uomini, ossia nella dimora più intima e delicata ch’è il loro cuore, non occorrono difese, sicurezze o armi particolari. I discepoli, indifesi e poveri, debbono andare in coppia perché la prima predicazione sia l’esempio del loro vicendevole amore, come del resto Gesù aveva detto: “da come vi amerete riconosceranno che siete miei discepoli”. Ricchi pertanto solo della misericordia di Dio e del Vangelo, i cristiani potranno abbattere i muri di divisione e liberare il cuore degli uomini dai limiti e dai pesi che li opprimono. Davanti a tale compito, affascinante e terribile nello stesso tempo, non possiamo tirarci indietro. E assieme ai discepoli santi, diciamo: “Ecco, Signore, manda me!” (Is 6, 8).