Fallisce, con una partecipazione al voto di poco sopra il quarto degli aventi diritto (al 25,7%), la duplice tornata referendaria 2003: mai così basso il numero degli elettori affluiti al seggio nella ormai quasi trentennale storia dell’istituto referendario. D’altra parte il risultato era ampiamente annunciato, avendo la gran parte delle forze politiche chiesto appunto all’elettorato di disertare le urne, con particolare riferimento al quesito più ‘caldo’, quello sull’estensione dell’art. 18 alle piccole imprese. Se Cgil accusa un chiaro ridimensionamento per gli altri due sindacati maggiori è finalmente giunto il momento di mettere mano seriamente al problema dei diritti e delle garanzie per il lavoro, dopo una stagione caratterizzata dalla politicizzazione dell’azione sindacale, in relazione alle complesse vicende della ristrutturazione dello spazio politico ex-Pci ed al destino politico dell’ex-leader sindacale Sergio Cofferati. In effetti, al di là di un referendum su cui appunto molto hanno pesato le vicende politiche, ed in particolare quelle interne alla sinistra ex comunista, c’è molto bisogno di una nuova stagione delle politiche del lavoro e del welfare che abbia veramente al proprio centro la persona del lavoratore, così come la famiglia e l’impresa, intesi come formazioni sociali e dunque soggetti del sistema della sussidiarietà. Tutti i soggetti sociali sono insomma chiamati nei prossimi anni a riprodurre le condizioni per realizzare un circuito virtuoso in cui i diritti – da rafforzare armonicamente connessi ai corrispettivi doveri – siano intesi come condizioni per realizzare sviluppo e non rendite da consumare in modo sostanzialmente sterile. Non è una transizione facile: le parole d’ordine meramente neo-liberiste rischiano di produrre nel corpo sociale più vistose sperequazioni, senza realizzare quei benefici di sviluppo che pure erano accreditati come certezza ancora solo pochi anni fa ed ora appaiono vuota retorica. Nello stesso tempo l’esito del referendum dimostra come non abbia prospettiva la rivendicazione di maggiori rigidità. La sintesi richiede da parte di tutti saggezza, lungimiranza e una percezione sincera del ‘bene comune’. Certo questo non è un dato economico in senso stretto, ma non è forse vero che la perdita di competitività del nostro sistema-paese, che molti autorevoli analisti hanno denunciato in questi ultimi tempi, dipende anche da una crescente frammentazione sociale, che genera anche un senso di frustrazione che sembra serpeggiare di fronte alla percezione del crescere della precarietà e degli squilibri tra zone del paese, tra ceti e professioni e anche tra le generazioni?
Al di là del referendum
AUTORE:
Francesco Bonini