Quando si parla di casa, l’equilibrio tra domanda e offerta sembra non raggiungersi mai. Almeno in questi ultimi anni. A fronte, infatti, di una quantità notevole di locali sfitti o invenduti (in Umbria sono almeno 40 mila), le difficoltà di accesso al credito ostacolano anche coloro che vorrebbero acquistare.
Come uscirne? Cambiando prospettiva, aprendosi a nuove forme di abitazione e abitabilità che in Nord Europa già funzionano da anni. Come il cohousing.
Il termine, traducibile (non perfettamente) nell’italiano “coabitare”, designa un modello abitativo in cui agli spazi privati della casa tradizionale si associano spazi e servizi comuni, che vengono gestiti collettivamente. Dalla cucina alla lavanderia, dalla palestra alle stanze per i giochi dei bambini, dagli spazi verdi ai mezzi di trasporto.
Si passa, quindi, da un’esperienza singola e “passiva” di scelta fra le soluzioni abitative già esistenti proposte dal mercato immobiliare, guardando ai problemi di gestione (riscaldarsi, muoversi, cucinare, fare le pulizie, ecc.), a una collettiva e “attiva”: un gruppo di persone sceglie di vivere insieme, sceglie di progettare o riprogettare insieme uno stabile a misura delle proprie esigenze, e sceglie di gestirlo insieme.
Il modello del cohousing è stato oggetto di un incontro giovedì 16 alla sala della Partecipazione di palazzo Cesaroni, dal tema “Abitare e condividere: la risposta è cohousing”. L’iniziativa era a cura di “Housy – Progetti per condividere”, gruppo multidisciplinare (architetti, avvocati, agenti immobiliari…) di accompagnamento di progetti di cohousing.
“Gli spazi comuni – spiega Chiara Durante, ricercatrice ed esperta del settore – sono un valore comune, per questo vengono costruiti proprio per favorire l’incontro e la reciprocità. Gli abitanti condividono tutto, dalla progettazione alla manutenzione, sottoscrivendo una sorta di statuto in cui sono definiti compiti, mansioni, turni, ecc. Questo non significa assolutamente che ci siano forme di condivisione del reddito familiare, né, d’altro canto, di retribuzione per il lavoro svolto”.
“Nel cohousing – spiega l’architetto Viviana Lorenzo – la condivisione comincia fin da subito attraverso la cosiddetta ‘progettazione partecipata’. Ovvero, un gruppo di persone si mette insieme e, affiancato da esperti del settore, partecipa attivamente alla costruzione dello stabile, fissando esigenze, obiettivi e standard di qualità”.
Spesso poi i cohousing diventano veri e propri centri propulsori di rigenerazione urbana, capaci di far rinascere quartieri altrimenti abbandonati. È il caso, ad esempio, del San Lazzaro a Bologna, dove edifici di proprietà comunale in fase di abbandono sono stati ripresi da un gruppo di cittadini e riprogettati. O come il caso di Porta Palazzo a Torino, palazzina ottocentesca ristrutturata che ospita otto famiglie in altrettanti alloggi.
Anche dal punto di vista dei costi, l’esperienza del cohousing può risultare vantaggiosa. “Perché – specifica Luca Canini, consulente dell’agenzia immobiliare Habitat – se è vero che il prezzo degli immobili da acquistare resta inizialmente più o meno invariato, è altrettanto vero che questi immobili si rivalutano moltissimo nel tempo alla luce dei servizi aggiuntivi che offrono rispetto ai condomini tradizionali; e poi, ovviamente, tali servizi condivisi rappresentano una fonte di risparmio per gli abitanti”.
In Umbria non si sono ancora sviluppati modelli di cohousing come questi. In tutta Italia, anzi, le esperienze del genere sono poche. Ma il futuro è già alle porte, e chi fosse interessato a farne parte, o semplicemente saperne qualcosa di più, può scrivere a housyco@gmail.com.
Intanto, l’assessore regionale alle Politiche della casa, Stefano Vinti, presente all’incontro, ha sollecitato: “Il cohousing può essere un modello di innovazione anche per la nostra regione. Costituite un gruppo di vostri rappresentanti che facciano da portavoce: noi siamo disponibili a incontrarci”.