Dopo il deserto e il monte Tabor, siamo condotti a Gerusalemme nel tempio; da qui ricomincerà la liturgia della Parola della prossima domenica, che già allude alla Pasqua. Nella prima lettura, si parla del Tempio distrutto dai nemici a causa delle infedeltà del popolo, che viene deportato in esilio. Questa desolazione non sarà definitiva e il tempio verrà ricostruito, fino a che verrà sostituito da Cristo, il cui corpo verrà devastato e poi riportato alla vita. Cristo non resta nel sepolcro, proprio come il popolo non resta in esilio e i credenti non restano nella morte. “Eravamo morti, distrutti come il tempio, ma Dio ci ha fatto rivivere con Cristo”, per amore gratuito. L’amore non è mai “dovuto”, è un atto di libertà; per questo ci lascia stupiti e grati e ci colma di una gioia che la mera soddisfazione dei diritti non può dare. “Mamma, ma tu mi vorrai sempre bene?”. “Certo”. “Anche se faccio il cattivo?”. “Certo”. “Perché?”. “Perché ti voglio bene, ho scelto di fare sempre il tuo bene e non cambierò mai idea”. E gli occhi dei bambini si illuminano di uno stupore che ciascuno dovrebbe provare davanti al volto di Cristo: ci ama perché ha scelto così, vedendo in noi una bellezza che lo attrae e per la quale si è deciso.
L’amore non va mai guadagnato, né si può controllare: è pura libertà gratuita, eppure è solido e fedele come niente altro. L’amore è la dimostrazione che essere liberi è l’opposto di essere volubili: amare comporta essere liberi al punto da possedersi per potersi dare a un altro definitivamente e senza riserve. La fede è il primo esempio di questa libertà, il più alto: diventare credenti vuol dire lasciarsi scegliere da Dio e rispondergli con tutta la propria persona, senza trattenere per sé nulla. Solo una barca non ormeggiata può prendere il largo; se invece è ormeggiata, non è libera di essere ciò per cui è stata costruita. Un essere umano che non decide liberamente di amare, non è pienamente umano. Così nei confronti di Dio, così nei confronti dei fratelli, anche se qui le relazioni si possono connotare in modo assai diverso: sponsali, genitoriali/filiali, fraterne (nei diversi significati e modalità concrete che la fraternità assume), amicali.
Riempiti dall’amore di Dio, possiamo imparare a donarci liberamente, e solo così viviamo. Per questo, senza il Suo amore siamo come morti, mentre in Lui viviamo da risorti, sediamo nei cieli, siamo salvati dall’incapacità di amare e dalla morte. Senza di Lui saremmo niente, al punto da dover affermare che siamo opera Sua come se fossimo stati plasmati dalle Sue mani, costruiti come un tempio, progettati e realizzati dalla straordinaria ricchezza del Suo amore.
Si tratta di una vera e propria rinascita. Nei versetti immediatamente precedenti al brano del Vangelo di questa domenica (che seguono il brano proclamato domenica scorsa), Gesù spiega a Nicodemo che per entrare nel Regno occorre rinascere dall’acqua e dallo Spirito; poi spiega che ciò avviene per mezzo di lui, che è stato mandato perché il mondo non si perda e abbia la vita. In mezzo alla notte oscura della storia, in mezzo alle vicissitudini faticose e al male che ci minaccia, Uno viene innalzato come il serpente nel deserto: se guardiamo a lui, non ci perdiamo. Guardare a Gesù innalzato, offerto per noi, tendere a lui e farsi riempire del suo amore, ci permette quella libertà che ci fa amare e donarci, che ci fa cioè vivere, e così ci allontana dalla morte, ricacciandola nel nulla.
Gli esseri umani imparano a vivere e ad amare perché vengono amati. A un certo punto, riempiti d’amore e resi sicuri dall’amore ricevuto, cominciano ad amare a loro volta, e così scoprono di essere diventati adulti: quando il loro bisogno più importante li spinge non a prendere, ma a dare. Così accade ai credenti, che innalzano lo sguardo sul Figlio che il Padre ha dato per la nostra salvezza: riempiti da un amore sconfinato – “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio” – possono donarsi liberamente a Dio e ai fratelli, rinascendo a vita nuova. Ora essi sono il tempio che non può essere distrutto, perché sono uno con il Risorto, pieni del suo Spirito.
Allora, ogni volta che siamo in affanno o minacciati, dobbiamo “alzare lo sguardo a colui che hanno trafitto” e mormorare con il Salmista: “Mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo, se non innalzo Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia”.