Un uomo ne aveva calunniato un altro, ma poi si pentì, andò da lui e gli disse che, per farsi perdonare, avrebbe fatto tutto quello che voleva. L’altro gli chiese di trasportare un sacco pieno di piume fin su una montagna; arrivati in cima, gli ordinò di svuotare il sacco al vento. Poi gli disse: “E adesso va’ a riprendere le piume una per una!”.
Questo midrash è stato raccontato al Centro ecumenico di Perugia il 15 gennaio dal rav (rabbino) Cesare Moscati di Roma, invitato in occasione della 19a Giornata del dialogo ebraico-cristiano, che quest’anno aveva per tema il Comandamento “Non dire falsa testimonianza”. O meglio, come ha precisato Moscati: “Qui non mi sento affatto un ospite invitato, ma uno degli appartenenti al Centro ecumenico. In nessun altro luogo, a parte Roma, ho tenuto così tanti incontri di questo tipo nel corso degli anni”.
A causa della diversa suddivisione del testo del Decalogo, come è noto, quello che per i cristiani è l’ottavo Comandamento, per gli ebrei è la nona Parola (la decima unifica i due divieti di desiderare). “Letteralmente – ha spiegato il rav – il testo ebraico andrebbe tradotto: Non rispondere al tuo amico, al tuo prossimo, come falso testimone. Anzitutto, si parla di testimone, non di testimonianza; ciò che conta di più non è il fatto ma la persona, che deve possedere i requisiti del vero testimone. Una persona può essere la più sincera del mondo e affermare qualcosa che in sé è anche vero, ma, se conosce il fatto solo per sentito dire, non direttamente, allora non può testimoniare. Si tratta infatti di un atto dalle enormi conseguenze, con effetti che durano nel tempo, come suggerisce anche l’assonanza tra i termini ebraici hed (testimone) e hod (finché…)”.
Da notare che i Comandamenti sono elencati sia nel libro dell’Esodo sia in quello del Deuteronomio, con alcune sottili differenze. Nel caso del comandamento in esame, il Deuteronomio non proibisce la parola “falsa” ma quella “inutile, vana, senza motivo”. Inutile, ad esempio, è una testimonianza in cui vi sia una persona sola, dato che, per arginare il rischio di calunnie, la Bibbia esige che ci si presenti in tribunale almeno in due. “Questo – ha precisato Moscati – era l’unico metodo, millenni fa. Oggi a corroborare le testimonianze possono anche intervenire, ad esempio, le immagini delle telecamere o gli esami del Dna. Ma ancora una volta, ciò che viene ribadita è la gravità della calunnia. Se i precedenti Comandamenti affermavano semplicemente: non uccidere, ecc., qui e solo qui si aggiunge: non fare questo al tuo prossimo. Come a dire: è evidente da sé che l’omicidio o il furto procura il male al prossimo, ma attenzione che anche la parola falsa lo fa”.
Non poteva mancare, negli scambi tra il relatore e il pubblico, qualche commento sulla recente tragedia di Parigi. “Tutti – ha detto il rav – adesso dicono Io sono Charlie, però pochi ricordano che a Parigi sono stati uccisi anche degli ebrei, e non perché avessero detto qualcosa di offensivo, ma semplicemente perché erano ebrei. Di fronte all’estremismo islamista, oggi ebrei e cristiani si trovano nella stessa barca. Questo dovrebbe rafforzare l’unità tra loro, ma anche con i musulmani moderati, che vengono considerati alla stregua degli infedeli dai terroristi. Sono d’accordo con quanto ha affermato Papa Francesco: nessuno può uccidere in nome di Dio! Nella tradizione ebraica, la sesta Parola (quinto Comandamento) è speculare alla prima: non uccidere, perché credere in Dio significa riconoscere la Sua immagine nell’uomo”.