Parole di pace

Anche volendo non si può parlare d’altro in questi giorni. E non ci si può neppure frenare con la scusa di essere incompetenti. Tutti ne parlano a proposito e a sproposito, accalorati da passione. La discussione è planetaria e agita i politici e la gente comune. Purtroppo in questi casi non si riesce a fare troppe distinzioni, o si è da una parte o dall’altra. Chi prova a dire che si può essere contro la guerra, ma non contro gli Stati Uniti non viene preso sul serio perché sembra un gioco di parole, che in concreto non cambia nulla e non libera gli americani dalla paura di attacchi terroristici. Così se uno dice che bisogna scalzare a tutti i costi Saddam Hussein perché è un dittatore pericoloso, senza fare del male alla popolazione civile, che ne è vittima, e che,anzi, sarebbe sollevata dal peso di un tiranno si espone al ridicolo come se ciò fosse possibile con un semplice mandato di cattura. Ci sono dei benpensanti, un po’ ingenui, che hanno proposto l’esilio volontario di Saddam Hussein. Apprezzabili per la buona intenzione, ma fuori della realtà. Quando mai qualcuno ha riconosciuto di essere un ostacolo e un danno per il suo popolo e si è tirato indietro? E tuttavia si devono dire parole di pace che siano chiare, senza equivoci e riserve mentali, almeno per uscire dal rischio che chi parla inganni prima di tutto se stesso. Uno che di parole chiare ne ha dette su tale argomento, come ricordava recentemente in un articolo di Avvenire Vittorino Andreoli, è stato Erasmo da Rotterdam, il quale arrivava a dire, appoggiandosi all’autorità di Cicerone, che “una pace ingiusta è sempre migliore della guerra più giusta”. Ed ammoniva i principi litigiosi del suo tempo a non insistere troppo sulle proprie ragioni e il proprio diritto, perché ” chi non considera la propria come causa giusta”?. Ma Erasmo non è stato preso sul serio da nessuno, neppure dagli ecclesiastici del Cinquecento e il termine “irenismo”, da lui usato, ascendente nobile del pacifismo, ha risuonato invano, considerato una provocazione e una resa. Nella storia ha vinto la tesi di Machiavelli secondo cui soltanto la paura rende tranquilli e pacifici i popoli. Una delle parole chiare dovrebbe essere quella dei numeri. Si calcola che nella eventuale guerra vi siano 5 mila morti Usa e 100 mila irakeni. Non è cosa di poco conto. Eppure anche in questo caso qualcuno, piuttosto cinicamente, afferma che in seguito ce ne potrebbero essere molti di più se si scatenasse un’offensiva terroristica a livello mondiale. Lo stesso ragionamento che è stato fatto per la bomba atomica su Hiroshima e Nagasachi. Al fondo di tutto c’è la divisione del mondo e delle nazioni tra loro, il conflitto di interessi, la sfiducia che l’altro mi voglia male e mi voglia sopraffare. Sospetto e paura, alimentati dalla ideologia (scontro di civiltà), dal desiderio di dominio e di potere (petrolio), egemonia di aree geopolitiche o mondiali.. Forse, come in altri momenti storici, l’umanità è ad una svolta di cui non conosce il futuro, che può avere due esiti, il conflitto atroce che farà ammutolire per lo spavento e la possibile minaccia di reazioni prossime o remote, o un salto di civiltà trovando, magari all’ultimo momento, un accordo mediato dagli organismi internazionali, riconosciuti come imprescindibili per uno scenario accettabile del nuovo secolo. Questo secondo esito che coniughi la ragionevolezza con la sicurezza, la ripresa di un dialogo che stemperi i vicendevoli sospetti, la messa al bando del metodo terroristico, una soluzione del conflitto tra israeliani e palestinesi, che è il bubbone principale che inquina il clima internazionale, è ciò che ogni uomo sensato può desiderare. Mi rendo conto che sono parole che volano oltre le possibilità umane (“A meno che un dio venga a salvarci”, Heidegger). Ma se non si spera nell’impossibile, non si è capaci di fare neppure il minimo di ciò che è possibile. La Chiesa in questo contesto sta facendo la sua parte, al vertice e alla base, in tutte le sue molteplici presenze diffuse in tutto il pianeta, insieme a tanti altri uomini e donne amanti di Dio e degli esseri umani, non parteggiando come alleata di qualcuno, ma introducendo nella storia quella che è stata chiamata “la forza debole della preghiera” e attivando anche iniziative di dialogo e di riconciliazione tra popoli razze, culture e religioni. Se ci sarà la guerra non sarà santa. Se si avrà il terrorismo, non sarà benedetto da nessuno, ma maledetto come il fratricidio di Caino. E’ venuto il momento, in questo inzio del terzo millennio che il ricorso alla violenza militare organizzata o selvaggia, in possesso di strumenti sofisticati di morte, sia bandito almeno nella coscienza e nelle legislazioni dei popoli. Alle ragioni della forza si deve sostituire la forza della ragione. Al povero cittadino inerte non resta che pregare, accendendo un lume di speranza sul davanzale della sua casa in attesa.

AUTORE: Elio Bromuri