Il dono implorato

Siamo ormai al conto alla rovescia, nella ruvida concezione americana delle relazioni internazionali, che tende a mettere la “vecchia” Europa di fronte ad una scelta obbligata. Eppure… Eppure tutto questo non convince, non riesce a persuadere. Non stupisce allora che uno dei crocevia diplomatici di questi giorni sia la Santa Sede, proprio nella sua dimensione mondiale, che ne fa uno degli attori di respiro “globale” all’opera in questo scenario nuovo e così incerto, ma certamente decisivo. La pace, ha sempre insegnato il Papa, ed in particolare proprio questo Papa, che nella sua storia ormai più che venticinquennale non si è mai mostrato “arrendevole” di fronte a chicchessia, è dono di Dio ed impegno fattivo degli uomini, della politica. E’ dunque un obiettivo concreto, non solo uno scenario utopico. Ecco così i due registri che definiscono il timbro originale della Chiesa e della Santa Sede e ne fanno un punto di riferimento per tanti, al di là delle appartenenze: la preghiera e l’azione diplomatica attiva. All’Angelus di domenica 9 Giovanni Paolo II ha ripetuto che “in quest’ora di preoccupazione internazionale, tutti sentiamo il bisogno di rivolgerci al Signore per implorare il grande dono della pace”. Questo con la consapevolezza che “le difficoltà che l’orizzonte mondiale presenta in questo avvio di nuovo millennio ci inducono a pensare che solo un intervento dall’Alto […] può far sperare in un futuro meno oscuro”. Ma la preghiera non è solo consolatoria, è efficace. Questo è il senso delle “numerose iniziative di preghiera si svolgono in questi giorni in varie parti del mondo”. Ecco allora il significato della missione del cardinale Etchegaray a Baghdad, presentata dal portavoce vaticano come una chance per la pace nella misura in cui il regime trae le conseguenze di una situazione ormai insostenibile: “Scopo della Missione Pontificia è dimostrare a tutti la sollecitudine del Santo Padre a favore della pace ed aiutare poi le Autorità irachene a fare una seria riflessione sul dovere di una fattiva cooperazione internazionale, basata sulla giustizia e sul diritto internazionale, in vista di assicurare a quelle popolazioni il bene supremo della pace”. Solo così si potrà aprire uno spiraglio di azione per le Nazioni Unite. E questo potrebbe essere non semplicemente l’ennesima puntata di un gioco dilatorio del regime, ormai insostenibile, ma – arrivando in prospettiva ad affidare alle stesse Nazioni Unite un ruolo attivo – principio di quell’articolazione di un nuovo sistema di relazioni internazionali di cui proprio la crisi irachena ribadisce l’assoluta urgenza.

AUTORE: Francesco Bonini