Mi è stato chiesto di proporre a un gruppo di amici qualche riflessione sul secolo XX, quello che senza troppi rimpianti ci siamo lasciati alle spalle.
Ci ho pensato un po’ e m’è parso interessante soprattutto poter cogliere in quei cento anni, e ragionarci su, un’inedita presenza di chiaroscuri fortissimi. I ceffi di Hitler, Stalin e Pol-Pot da una parte, Mounier e il suo personalismo comunitario, Lord Beveridge e il suo Welfare State, padre Massimiliano Kolbe e il profumo del suo canto. Kolbe. Quel canto, nella cella umida e fetida che aveva voluto per sé. Quel canto, mentre Sorella Morte lo cullava prima di affidarlo all’abbraccio del suo Signore. Kolbe, una morte coerente con una vita vissuta per intero nell’alone di luce invincibile che ha lasciato dietro di sé il giovane Rabbì di Nazareth.
“Cento anni”: avrei dovuto dire cento anni meno 14, meno 11, perché ha convinto anche me quella ormai famosa tesi dello storico inglese Hobsbawm, secondo il quale quello che ci siamo lasciati alle spalle è stato un “Secol breve”. Il secolo XX non è cominciato – dice Hobsbawm – nel 1900, ma nel 1914, quando il giovane intellettuale di risulta Gavrilo Princip, sparando all’arciduca Massimiliano, incendiò l’Europa e dette il via alla Grande Mattanza, portata poi avanti da tanti, troppi eserciti in due “grandi” (!?) guerre, col saldo finale di circa 70 milioni di martammazzati. Il secolo XX non è finito nel 2000, ma nel 1989, con il crollo del Muro di Berlino e di tutto quello di negativo e di utopistico nel senso più deteriore del termine che esso per 28 anni aveva simboleggiato.
Che rimarrà del “Secol breve” negli anni avvenire? Rimarrà il ghigno dei ceffi che ho citato? Ma va’! Oggi nessuno di noi ricorda più con il dovuto orrore le 70.000 (settantamila) crocifissioni di altrettanti schiavi che i romani, alla metà del I secolo a.C., alla fine del bellum servile, misero in atto lungo tutta la via Appia, da Roma fino a Napoli. Fra poco, se la Panini deciderà di occuparsi di loro, Hitler, Stalin e Pol-Pot finiranno sulle figurine con cui i nostri ragazzini, stufi dei complicati giocattoli elettronici made in China, torneranno a sfidarsi a battimuro nella caminata di casa. Uccidere non solo è bestiale, ma inutile, non serve a niente.
Serve invece, e come!, ripensare la vita, senza stancarsi, in positivo, al servizio del benessere di tutti, sia sul piano teorico (come ha fatto il frizzante Emmanuel Mounier), sia sul piano assistenziale-sanitario (come ha fatto l’austero Lord Beveridge). Questo ripensare è sempre un inizio, un qualcosa che avrà un seguito: potrà anche venire obliterato per qualche tempo, ma poi tornerà a proporsi alle coscienze degli uomini e a spingerli verso una più puntuale e fattiva solidarietà, verso nuove acquisizioni degne del disegno che Dio ha su di loro.