La Evangelii gaudium di Papa Francesco continua a suscitare ricchezza e a stimolare ampie prospettive nella Chiesa italiana. Stavolta tocca da vicino il nostro territorio, ispirando la lettera pastorale che il card. Bassetti ha voluto rivolgere ai fedeli della diocesi di Perugia – Città della Pieve. La lettera, lucida e agile, sottolinea molti aspetti dell’enciclica, ognuno meritevole di approfondimento. Ma alcune pagine ci colpiscono in particolar modo, poiché sono un esempio emblematico della dimensione epistemologica e metodologica della teologia, al punto da renderla una disciplina profondamente duttile e creativa. Si tratta delle pagine dedicate a “Una pastorale inclusiva” (pp. 19-25), che riflettono sulla priorità dell’accoglienza come segno reale di conversione: vi è vera accoglienza dell’altro solo se non lo si giudica e se lo si avvicina con tenerezza. Questo permette alla Chiesa di essere una realtà non esclusiva bensì inclusiva, capace di fare spazio reale anche ai lontani. Ma per facilitare questo, Bassetti indica tre criteri pratici: 1) solo una reale e schietta accoglienza sostiene l’amore per la disciplina e per l’obbedienza, che fanno procedere nel cammino di conversione; 2) la premessa dell’appartenenza alla Chiesa è l’amore di Dio per noi, non l’osservazione di regole morali, 3) precetti e regole morali che nel passato funzionavano efficacemente, potrebbero oggi non essere troppo adatti, e dunque andare compresi sotto una diversa prospettiva. Su questo ultimo punto sono richiamate le parole di san Tommaso d’Aquino, quando sottolineava che i precetti dati da Cristo e dagli apostoli sono pochissimi, e di sant’Agostino, quando ricordava che i precetti aggiunti dopo vanno esigiti con moderazione.
Proprio questo terzo punto illumina un modo di concepire la teologia, di cui nel XX secolo fu maestro Lonergan e di cui oggi si discute nei centri di ricerca internazionali in cui si indaga il rapporto tra logica e teologia. Molto spesso infatti si pensa che la teologia sia una specie di mappa di verità già date, che spiegano definitivamente e indiscutibilmente ogni aspetto di Dio, dell’essere umano, della Chiesa e, così facendo, di fatto si esclude che si dia un’autentica ricerca e un’autentica innovazione in ambito teologico. La teologia sarebbe una specie di stantio manuale di istruzione, al quale andare a guardare solo quando qualcosa nell’apparato di fede non funziona, ma che tutto sommato si può lasciare tranquillamente da parte quando la pratica e l’esperienza ci hanno insegnato come ottenere il risultato anche senza tante speculazioni intellettuali.
La ricerca teologica è decisamente altro. Non solo è aperta continuamente verso nuovi e migliori risultati, come ogni disciplina, ma è costantemente in dialogo con il contesto culturale in cui si trova, ponendo e rispondendo a domande nuove e imparando nuovi linguaggi per esprimere ciò che i credenti hanno ricevuto e tramandato per venti secoli. Come è possibile che la teologia produca risultati nuovi se l’oggetto che studia è Dio, immutabile ed eterno? Questo è il dubbio che arrovella coloro che pretendono dalla Chiesa sempre le medesime espressioni e le medesime posizioni, altrimenti essa cederebbe alla modernità e all’errore (basti vedere tutte le difficoltà che si hanno nel recepire l’ultimo Concilio e le tante risacche di nostalgia che abitano il sentire ecclesiale). L’errore è di metodo. La teologia non “studia” Dio, perché non si può attingere a Dio in modo diretto. La teologia studia piuttosto gli eventi e le parole in cui Dio si è comunicato in persona (cfr. Dei Verbum, 2), analizza questi dati a partire dalle fonti tramite le quali ci sono pervenuti – Scrittura e Tradizione -, quindi li interpreta e cerca di discernere, fra le diverse possibili interpretazioni che si sono date lungo la storia della Chiesa, quali siano le posizioni autenticamente cristiane e quali invece siano da considerarsi superate (nel momento in cui cambia il contesto, anche il contenuto può necessitare di una riscrittura per non venire frainteso) o erronee (perché nell’interpretare il dato della fede il soggetto umano è coinvolto con le proprie risorse e le proprie miserie; può quindi produrre interpretazioni non autenticamente cristiane, che vanno abbandonate). Solo un teologo che sia immerso nell’esperienza cristiana può fare questa opera di discernimento, perché proprio l’esperienza cristiana vissuta è il luogo cui attingere per elaborare categorie significative, in base alle quali valutare la tradizione ricevuta e discernere in essa ciò che è da credere e ciò che è da abbandonare. A questo punto si può riscrivere e risistemare quanto ricevuto, sulla base di una quanto più possibile corretta interpretazione dei dati, e proporre ai credenti ciò che si deve credere. Si sarà elaborata così una dottrina capace di rendere ragione della propria tradizione, purificata in maniera sempre maggiore dalle inautenticità, ma anche innestata nell’oggi, perché il teologo che elabora categorie utili a discernere e a ridire la dottrina vive oggi e ragiona dentro il contesto culturale contemporaneo.
Colpisce la plausibilità di questa procedura dal punto di vista formale e metodologico, soprattutto se si pensa che – con le dovute e profonde differenze – la storia della logica e della scienza è arrivata a conclusioni analoghe. Per produrre dimostrazioni deduttive la scienza ha avuto per secoli come modello la matematica di Euclide, basata su cinque postulati. Uno di questi, quello delle rette parallele, venne negato, permettendo di inventare le geometrie non euclidee, che a loro volta fornirono gli strumenti alla teoria della relatività di Einstein. Da qui in poi la logica ha riflettuto ampiamente sui limiti intrinseci di un sistema, resi celebri da Gödel, e quindi anche sulle proprietà di un sistema di scienza, mostrando come con molte premesse (meglio, assiomi) si ottengono dimostrazioni forti ma molto restrittive, mentre, con poche premesse, il sistema è molto più duttile e capace di adattarsi. Da qui ancora i sistemi induttivi e le mille forme di logica che ormai pullulano il panorama filosofico attuale, insieme all’idea di potersi concentrare su pochi assunti fondamentali per modellare il sistema più efficace per il problema studiato. In particolare, il Novecento della scienza insegna quella grande lezione di umiltà e creatività che, dopo la rivoluzione relativistica e quantistica, ha portato a intraprendere nuove vie speculative e sperimentali e a dialogare in maniera più stretta con il sapere filosofico. È fondata allora la speranza di poter sempre trovare il modo che la Rivelazione sia un dono per tutti, e non per pochi, e che alla ragione spetti il compito di aprire le strade che coniughino misericordia e conversione: laddove si stenta a intravedere queste strade, vi è di certo una carenza di pensiero, come spesso lamentava Benedetto XVI. Ancora una volta, viene da pensare quanto il cristianesimo esalti la ragione, ritenendo che una fede capace di motivarsi e fondarsi sia una fede umanizzante, e soprattutto in grado di parlare cattolicamente, come l’etimo katholikos (universale) suggerisce chiaramente.
Flavia Marcacci – Simona Segoloni, docenti Ita
Perché questa nuova rubrica su La Voce
Con questo intervento di Flavia Marcacci e Simona Segoloni iniziamo una rubrica intitolata “Approfondimenti” che offriamo ai nostri lettori, quelli in particolare che desiderano andare a fondo su alcuni aspetti della vita di fede, tenendo conto della condizione del pluralismo culturale e religioso in cui oggi ci troviamo. Offriamo pertanto uno spazio a quei teologi, filosofi, storici, specialisti e cultori di discipline che abbiano attinenza in maniera diretta o indiretta con il pensare cristiano.
Coloro che lo riterranno utile, e forse anche necessario per arricchire l’esperienza religiosa della nostra comunità di credenti, e considerano opportuno il loro intervento per suscitare domande e reazioni da parte di non credenti, potranno avere uno spazio, sia pure entro i limiti di un settimanale. Flavia Marcacci e Simona Segoloni, a loro insaputa, si trovano a fare da apripista e in qualche modo anche da “cavia”, prestandosi a ulteriori commenti e riflessioni sul tema da loro trattato a partire da un’indicazione contenuta nella lettera pastorale del card. Gualtiero Bassetti Missione e conversione pastorale – Alla luce della Evangelii gaudium per l’avvio del processo di discernimento, purificazione e riforma.
I nostri lettori sanno bene che un pensiero forte e autorevole è presente già da molti anni, in ogni numero del nostro settimanale, scritto dai nostri Vescovi, non solo nelle pagine gestite dalle singole diocesi secondo le occasioni legate alla vita delle loro comunità, ma in una rubrica fissa nella quale a turno hanno l’opportunità di inviare un messaggio al popolo di Dio e a tutta la comunità regionale. Questo spazio dona a La Voce un supplemento di autorevolezza e una carica di incisività, come spesso ci chiedono i lettori.
L’aggiunta in una pagina di riflessioni offerte da teologi, maestri e dottori, soprattutto coloro che insegnano nelle nostre scuole di formazione teologica, si pone su un livello diverso, in qualche modo complementare e con caratteristiche proprie, che consentono anche una problematizzazione delle questioni, in un dialogo aperto con Pastori, fedeli e mondo esterno, compresi i cosiddetti “lontani”, seguendo quell’invito di Papa Francesco ai Padri riuniti in questi giorni per il Sinodo sulla famiglia, ai quali ha rivolto un chiaro e coraggioso invito a “dire tutto con parresìa e ad ascoltare tutti con umiltà”.
Naturalmente una rubrica come questa non può non prevedere lettere di chiarimento e di critica, e un dialogo aperto secondo la regola di sant’Agostino: “Cerchiamo come chi sa di trovare, troviamo come chi sa di cercare”, che ci spinge a cercare sempre senza posa il volto di Dio.
Elio Bromuri