Il tema dominante delle letture di questa domenica fa riferimento al rifiuto, da parte chi si ritiene giusto, ad aderire alla parola di Gesù, che invece viene accolta da chi è emarginato. Il discorso è pronunciato in una precisa realtà storica, ma evidentemente riguarda l’orientamento di ciascun credente e la Chiesa nel suo insieme. San Paolo dà indicazioni sul come il cristiano si deve comportare: “Non… rivalità o vanagloria… Con tutta umiltà consideri gli altri superiori a se stesso… Ciascuno non cerchi l’interesse proprio ma anche quello degli altri…”. Questo, a imitazione del modello che è Cristo, mirabilmente presentato nella Lettera ai Filippesi. I due elementi salienti sono il primato dei fatti sulle parole e sulle apparenze, e la predilezione divina per i poveri e gli emarginati.
Riguardo al primo aspetto si propongono le seguenti considerazioni. Dapprima una premessa: non sempre c’è contraddizione tra l’apparire e il fare. L’apparire in sé non è da condannare; il problema nasce quando al dire e all’apparire non corrispondono i fatti. Il dire, l’apparire è a volte un “testimoniare” nella realtà odierna; non solo nelle zone dove esiste la persecuzione dei cristiani in quanto tali, ma anche nelle nostra realtà, dove dichiarare la propria fede può comportare svantaggi in termini di accettabilità sociale. I
l divario tra il dire e il suo realizzarsi è praticamente una costante del comportamento in ogni ambito di attività, per ragioni le più disparate, alcune delle quali anche ovvie. Siamo immersi nella società in cui l’apparire è l’essenziale, la coerenza è un valore secondario, spesso considerata inutile; il clima che respiriamo aumenta le nostre difficoltà ad aderire a questa Parola. Nella vita concreta di ciascuno, che cosa significa “operare”? I modelli e gli esempi sono molteplici; ma scegliere concretamente nella quotidianità significa anche saper “inventare” un percorso che, anche se immersi in una dimensione comunitaria, è sempre qualcosa di unico, e che perciò comporta tensione, applicazione continua. San Paolo (Romani 7,18-20) ricorda: “C’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio…”. È forse questa la chiave più profonda e vera per comprendere le nostre difficoltà a operare il bene. È quindi la dimensione trascendente che, ancora una volta, appare indispensabile per realizzare la Parola.
L’attenzione e la predilezione per i poveri e gli ultimi è un tema che viene presentato costantemente nella Bibbia e ribadito dalla Chiesa (in primis, attualmente, da Papa Francesco). Nelle letture di questa domenica viene sottolineata la maggiore disponibilità all’ascolto dell’Annuncio e al pentimento che ha chi è più povero, fuori delle “giuste regole”, e si sente peccatore rispetto a chi si crede giusto perché aderisce formalmente alla legge. Ma nella realtà di vita non è spontaneamente desiderabile essere emarginati e bisognosi; piuttosto si cerca la sicurezza e l’autosufficienza, e di avere un’immagine positiva di se stessi.
A guardarci però con un occhio di verità, sia da un punto di vista strettamente umano sia ispirandosi alla Parola di Dio, tutto questo appare illusorio: non esiste una vera sicurezza, né autosufficienza. La nostra immagine positiva di noi stessi non può essere obiettiva: è sempre viziata dai nostri bisogni. Il cammino verso una maggiore consapevolezza della nostra realtà ci aiuta a sentirci meno appagati e ci rende probabilmente più disponibili al “pentimento per credere”.