L’ho rivisto per la terza o quarta volta, e mi è sembrato ancora più bello e più perfido delle volte precedenti. Parlo del film Il nome della rosa, tratto dall’omonimo romanzo di Umberto Eco. Un film del 1986, affascinante, anche se (per forza di cose) meno denso del libro cui si ispirò, quello che Eco aveva pubblicato nel 1980, che fu tradotto in tutte le lingue, e che nel mondo vendette 50 milioni di copie. Successivamente Eco ne pubblicò altri cinque, di romanzi, e furono dei flop talmente clamorosi da indurlo a maledire se stesso per aver scritto Il nome della rosa. Io – lo confesso – sono riuscito a leggere appena qualche pagina de Il pendolo di Foucault ma, durante la solita degenza ospedaliera di pochi giorni che non finiscono mai, mi sono sciroppato per intero Baudolino, e tanto m’è bastato per condividere a tutto tondo la bocciatura dell’Umberto Eco di quei cinque romanzi zoppi: dirne bene sarebbe stato come riproporre la promozione del Marchesino Eufemio di Gioacchino Belli, il giovane e stitico nobiluomo che (ricordate?) “latinizzando esercito distrutto scrisse exercitus lardi ed ebbe il premio”.
Il nome della rosa ha il suo nucleo generatore in un’appassionata e coinvolgente riflessione di taglio filosofico e teologico sul senso e sul valore della verità, o meglio sul senso e sul valore della ricerca di quella verità, che l’ultima schermata del film dichiara desolatamente irraggiungibile: Stat rosa pristina verbis, nomina pura tenemus – la realtà è fatta di parole, solo di parole, su null’altro che sulle parole può contare l’uomo. Sempre in riga con questa convinzione, la vicenda contrappone le due epoche e le due mentalità che nell’Alto Medioevo vennero a conflitto: Guglielmo da Baskerville solo contro un mondo dalle radici tenacissime; la ragione, la ricerca, il dubbio contro i dogmi raffazzonati, i preconcetti volgari e fantasiosi, le superstizioni paurose.
Posizione più che rispettabile. Ma perché incarnarla nella geografia umana e nella vicenda di quella incredibile abbazia innominata dell’Alta Italia? Al suo interno vivono non delle persone, ma ballano e si agitano delle macchiette che ridicolizzano il grande evento del monachesimo medievale.
In questo Umberto Eco è veramente perfido, sottilmente perfido. Nel 1954, quando aveva 22 anni, aveva tutti i diritti di abbandonare – come stavano facendo anche Carlo Carretto e Mario Rossi, ma in tutt’altra direzione – il gruppo dei responsabili nazionali della Giac, il ramo giovanile dell’Azione cattolica, sdirazzato da Luigi Gedda. Anni dopo aveva tutto il diritto di proclamare che, durante i suoi studi universitari su san Tommaso, il grande Aquinate l’aveva “miracolosamente curato dalla fede”, inducendolo a smettere di credere in Dio e a lasciare definitivamente la Chiesa cattolica. Ma non aveva nessun diritto di ridicolizzare nei suoi poveri pupazzi quella grandiosa stagione dello spirito umano che è stato il monachesimo medievale, immensamente più grande di lui e di noi.