Domenica 13 luglio la comunità cristiana di Città di Castello ordina vescovo un suo figlio: don Nazzareno Marconi, conosciuto e stimato non solo nella sua diocesi ma anche oltre, in Umbria e in Italia e, possiamo dirlo, nel mondo. (Guarda il video su FB) A 56 anni, con 31 anni di sacerdozio spesi nel servizio pastorale in parrocchia, nell’insegnamento teologico, nella responsabilità della formazione dei futuri preti al Seminario regionale umbro e tanti altri impegni, “don” Nazzareno (in realtà è “cappellano di Sua Santità” dal 2005 ma gli amici non lo chiamano “mons.”), lascia tutto per dedicarsi al nuovo servizio cui l’ha destinato il Papa.
Don Nazzareno, torniamo al giorno della nomina. Che cosa ha pensato quando ha ricevuto la notizia?
“Se devo essere sincero il primo pensiero è stato: stavolta non l’ho scampata! Poi ho provato una strana serenità, ho riflettuto che, se il Signore ti chiede qualcosa che non ti sei cercato, è obbligato moralmente a darti tutto l’aiuto necessario. Questo sentimento ancora resiste, e spero vivamente che si conservi. Poi ho pensato ai miei, la mamma, i fratelli e soprattutto i nipotini: come spiegare che proprio adesso che ero tornato a fare lo zio in maniera un po’ più presente, sarei dovuto sparire di nuovo? Infine, al fatto che la mia vita sarebbe cambiata. Ho lavorato in tanti ambiti, ma mi sono sempre divertito di più stando dietro le quinte che sul palcoscenico; ora sarà più complicato stare dietro le quinte”.
Quanto ha pensato a suo zio, don Edoardo? Cosa le avrebbe detto se fosse stato in vita?
“La pace che provo, ne sono certo, è anche un regalo suo. A un amico che prevedeva un tale cambiamento nella mia vita, lo sentii rispondere: ‘Speriamo che il Signore gli eviti una cosa del genere’. Il ‘don’ non si è mai fatto troppe illusioni sul fatto che la ‘carriera’ potesse dare gioia e serenità. Un giorno mi disse: ‘Un proverbio africano dice che, più la scimmia sale in alto, meglio le si vede il sedere!’… Chiaramente il testo originale in castellano era un po’ diverso”.
Ci spiega il suo motto episcopale?
“Il motto è tratto dal Primo libro dei Re 3,9: Dabis servo tuo cor docile, ‘Concederai al tuo servo un cuore docile’. È preso dalla preghiera del giovane Salomone a Gabaon. Il nuovo re, dovendo iniziare a governare il popolo di Dio, chiede un cuore saggio come dono più urgente e prezioso. Il testo ebraico recita ‘un cuore in ascolto’, un cuore che si mette in ascolto, intendendo: in ascolto obbediente e contemporaneo sia di Dio che del suo popolo. È l’atteggiamento con cui il vescovo si presenta al suo popolo, ma anche il progetto pastorale che vuol attuare: aiutare tutti a crescere nella capacità di porsi in ascolto obbediente di Dio e in ascolto amichevole e compassionevole delle ‘gioie e speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono’ (GS 1,1)”.
Andando a Macerata, lascia l’Umbria e la chiesa di Città di Castello. Di quali doni ricevuti qui ringrazia il Signore? Di quali peccati gli chiede perdono?
“Il dono più grande ricevuto dalla mia Chiesa e dai miei preti è una fede che punta al concreto, che sa essere auto-ironica, che non diventa mai ideologia, perché le persone valgono sempre più delle teorie. Chiedo scusa perché avrei potuto fare di più, ma quando penso che avrei potuto fare anche danni più grandi, torno in pace”.
Umbria e Marche, due regioni vicine, ma lontane? Che idea si è fatto delle due regioni?
“Che è solo questione della quota da cui si guarda. Da 1.000 metri di altezza si distinguono, ma da 50.000 metri sono solo un pezzo molto omogeneo dell’Italia centrale. Forse è ora che cominciamo a pensare da una quota un po’ più alta dei 30 metri di un campanile”.
Ha già avuto modo di conoscere la sua nuova diocesi. Come ce la potrebbe descrivere?
“È un’unione, ormai abbastanza organica, di cinque ex diocesi, attuali Vicarie, con una popolazione di circa 140.000 abitanti, 135 sacerdoti residenti in diocesi e 22 missionari fidei donum in altre parti del mondo. Questi numeri sono dovuti alla presenza dal 1992 di un Seminario diocesano missionario ‘Redemptoris Mater’ legato ai Neocatecumenali. Attualmente vi sono 40 seminaristi che, come i loro predecessori, sono missionari in diocesi e in altre diocesi italiane e mondiali, ma principalmente sono indirizzati alla missione in Cina. Non bisogna dimenticare che Macerata è la patria di padre Matteo Ricci, il grande evangelizzatore della Cina. Parto quindi per una diocesi vicina all’Umbria, ma che, vi assicuro, guarda molto lontano”.
Per il suo pastorale ha scelto il legno di ulivo, ma la particolarità è quella croce di Taizé che ha posto al centro del “riccio”. Da dove nasce questa scelta?
“Un’esperienza che ha caratterizzato la mia formazione è stata certamente il fatto che dal 1980 al 1987, nei miei anni di studi teologici e biblici, ogni estate ho passato, con borse di studio o lavorando, un mese all’estero per imparare un po’ le lingue moderne e conoscere altre culture e altre confessioni religiose. Sono stato in Francia, Inghilterra e Germania. Il lavoro era quello di guida turistica in luoghi religiosi artistici quali la cattedrale di Canterbury, o quella di Notre Dame a Parigi. Era fatto in collaborazione con un’organizzazione ecumenica francese: C.A.S.A., Communautés d’Accueil dans les Sites Artistiques, vivendo e lavorando insieme in piccole comunità con giovani cattolici, protestanti e ortodossi. Ho lavorato così anche in un oratorio estivo anglicano vicino a Brighton”.
E come è arrivato a Taizé?
“Queste esperienze estive le ho concluse sempre con alcuni giorni a Taizé. Un luogo che ho scoperto nell’estate del 1978 e che mi è rimasto nel cuore. È una comunità ecumenica protestante vicino a Lione, dove, sulle orme del fondatore Frère Roger, si insegna ai giovani del mondo la bellezza e l’importanza della preghiera, della vita comunitaria, della gioia di condividere il poco che si ha tra noi e con i poveri”.
Ha conosciuto personalmente Frère Roger?
“Gli incontri con lui, fino alla sua morte violenta [è stato assassinato da una squilibrata il 16 agosto 2005, durante la preghiera serale davanti a migliaia di giovani, ndr], che fu un vero martirio, e con gli altri monaci, mi hanno sempre nutrito profondamente. Taizé mi ha insegnato che ciò che unisce i battezzati è enormemente più grande di ciò che li divide, ma che le differenze vanno rispettate e stimate a vicenda, perché sono il dono delle nostre grandi tradizioni di fede”.