Un bambino di cinque anni, con gli occhi vispi e la corporatura ancora fragile. E’ il fiore più bello all’occhiello del campo Caritas di Radulac, simbolo del grande amore che unisce i volontari italiani alla gente del Kosovo. Si chiama Nak e nel 2000 arrivò al campo portato dai suoi genitori, una famiglia di religione musulmana. Chiedevano di aiutarlo a curare una malattia che sembrava già piuttosto grave. Il responsabile regionale della Caritas, don Lucio Gatti, insieme ai coordinatori del campo di Klina decise di portarlo in Italia per avere una diagnosi e un’assistenza medica più efficaci. Le condizioni di Nak si sono mostrate subito disperate: al bimbo i sanitari hanno trovato un terribile tumore osseo. Lunghi tentativi di cura in un ospedale bolognese e in uno perugino. Poi il verdetto spietato dei medici, che prevedevano per lui non più di due mesi di vita. Inutile continuare con un accanimento terapeutico, ulteriori cicli di terapie che avevano già devastato il piccolo corpicino di Nak. I genitori del bimbo, insieme a don Lucio, decisero di affidarlo al Signore, perché solo Lui che lo aveva creato potesse decidere se riprenderlo con sé o lasciarlo al mondo. Per questo, nonostante la famiglia di Nak sia di fede musulmana, tutti furono concordi nel portare il bambino a Lourdes e chiedere l’intercessione di Maria per invocare un aiuto. Una lunga notte di preghiera, l’acqua benedetta del Santuario mariano, l’affidamento del piccolo a Dio. Un viaggio della speranza, una prova di fede, compiuta all’inizio del 2001. A quasi due anni di distanza da allora, Nak è più vispo che mai, è cresciuto molto e sembra che il male lo abbia abbandonato. Almeno secondo i referti e i controlli medici degli ospedali kosovari. Nessuno, però, vuol parlare di un “miracolo” e – sicuramente – per il bambino è giusto così. E’ ancora il momento di vivere alla giornata, nell’affidamento pieno al Signore. “Lo avevano dato per spacciato – commenta con emozione don Lucio Gatti – ma invece Nak ha avuto un grande regalo dalla vita, grazie soprattutto a tutto l’amore che lui e la sua famiglia hanno avuto dalle tante persone che sono state loro vicine, sia in Kosovo che in Italia. Per noi è il dono più bello che in tre anni è stato frutto della realtà del campo di Radulac e vorremmo che fosse un seme per far capire a questa gente che non serve a nulla essere divisi o in lotta. Ciò che conta è solo essere uniti e volersi bene”.