Il recente pellegrinaggio di Papa Francesco in Terra Santa ha avuto anche lo scopo di incoraggiare il cammino dei popoli che la abitano verso la pace; essa è, al tempo stesso, dono di Dio ed impegno degli uomini. In Giordania, in Palestina e in Israele il Papa ha mostrato una grande compassione verso coloro che da troppo tempo convivono con la guerra e hanno il diritto di conoscere finalmente giorni di pace.
Da questo sentimento è nato l’invito rivolto ad Abu Mazen e a Shimon Peres di ritrovarsi insieme nella “casa” del Papa a pregare per la pace. L’invito è stato prontamente accolto e questo è già qualcosa di straordinario. Dalla Santa Sede la conferma nei giorni scorsi: l’incontro si terrà a Roma, domenica 8 giugno, in Vaticano.
Tutto ciò rivela la consapevolezza che il raggiungimento della pace non è affidato soltanto a strategie politiche o a
mediazioni diplomatiche. Per la pace serve qualcosa di più! Che un uomo di governo ne sia consapevole è un segno di
umiltà e di saggezza. È un segno di fede, che in altri contesti sarebbe stata soffocata da un malinteso senso di laicità. In questo senso, l’iniziativa proposta dal Papa e accettata
dai due leader politici lancia un messaggio al mondo occidentale: pregare pubblicamente per la pace non è un attentato alla distinzione tra la sfera civile e quella religiosa. Ma c’è un altro messaggio. È innegabile che nell’Europa dei secoli passati le diversità religiose siano state occasioni per originare contrapposizioni, sofferenze e guerre. Questo, però, non è il volto autentico della religione.
La realizzazione della pace dipende, innanzitutto, dal riconoscimento di essere, in Dio, un’unica famiglia umana. La pace nasce e si consolida dalla verità non solo che abbiamo tutti lo stesso sangue e facciamo parte del genere umano, ma anche che abbiamo un unico Padre nel cielo e siamo tutti suoi figli, creati a sua immagine e somiglianza. Le religioni, insegnando questo, sono vie alla pace.
La preghiera per la pace appartiene alla fisionomia dell’operatore di pace. Egli è come un artigiano che umilmente e laboriosamente custodisce pensieri di pace, pone gesti di pace, annuncia la beatitudine della pace. La preghiera sostiene tutto questo e invoca per gli sforzi umani il compimento divino. “La pace si fa artigianalmente! – ha detto Bergoglio. – Non ci sono industrie di pace, no. Si fa ogni giorno, artigianalmente, e anche col cuore aperto perché venga il dono di Dio” (udienza generale del 28 maggio 2014). L’artigiano di pace – sia egli uomo della strada o leader nazionale – ha bisogno della preghiera perché attraverso di essa lo Spirito di Dio “unge” e dispone il cuore a conservare la pace, ad essere messaggero e testimone di pace. Così, il Papa nella sua prima omelia in Giordania ha esortato, innanzitutto, i fedeli cristiani a lasciarsi “ungere” con cuore aperto e docile dallo Spirito Santo per essere sempre più capaci di gesti di umiltà, di fratellanza e di riconciliazione.
La preghiera per la pace può divenire anche offerta a Dio delle fatiche quotidiane: in questo modo è come arricchita ed impreziosita, perché sale da un cuore filiale che ama e che cerca di compiere la volontà del Padre. Essa ha una particolare efficacia. La preghiera, elevata anche da coloro che hanno la responsabilità dei popoli, testimonia l’innata vocazione dell’umanità alla pace. In ogni persona il desiderio di pace è aspirazione essenziale e coincide, in certa maniera, con il desiderio di una vita umana piena, felice e ben realizzata. L’uomo è fatto per la pace che è dono di Dio: a Lui va chiesta. Questo umanesimo aperto alla Trascendenza precede e sorregge ogni necessario impegno politico.
Non esistono industrie di pace; al contrario, purtroppo, esistono quelle delle armi. Pregare per la pace porta anche a pregare per la conversione di questi “poveri uomini” – ha detto il Papa – che si arricchiscono seminando la morte.