Condannare il terrorismo Eliminarne le cause

Dopo l'11 settembre si deve ripensare tutto l'impianto della politica

Se si dovesse chiedere quale evento ha segnato in modo più forte l’anno che sta finendo, ci sono pochi dubbi che la maggior parte dei pareri indicherebbero la tragedia di New York dell’11 settembre. E questo evento dovrebbe aver insegnato almeno due cose. La prima è che l’ombra minacciosa del “male assoluto” in politica, cioè l’orrore totalitario, incombe ancora e sempre sulle nostre società, presentandosi oggi sotto la forma del fondamentalismo o, almeno, sotto la forma che può assumere in determinati casi l’estremizzazione di quest’ultimo.La seconda è che, se non possiamo ricorrere ad alcuna strategia di giustificazione di questo orrore, dobbiamo però anche riconoscere che esso trova la sua spiegazione, almeno parziale, in alcune circostanze di ordine sociale, economico, politico, delle quali anche le nostre società sono responsabili. Rimuovere effettivamente le condizioni che possono influire sulla nascita e lo sviluppo del terrorismo è una priorità politica e morale alla quale i paesi ricchi si sono in buona misura sottratti. Noi, cittadini dell’Occidente industrializzato e prospero, non abbiamo quindi il diritto di piangere i morti delle Due Torri senza piangere, con la stessa passione e intensità, le vittime, per tanti anni mai apparse sulle prime pagine dei giornali, del sottosviluppo, della povertà, dell’arretratezza, della fame, quelle vittime i cui volti i telegiornali di tutto il mondo ci hanno mostrato insieme alle notizie dell’offensiva contro Bin Laden. Quelle vittime c’erano, ma si poteva, come dire?, far finta di non vederle; e questo è accaduto a molti per decenni. Adesso è se non altro più difficile ignorarle, così come è più difficile ignorare quanto sia reale lo slogan del “villaggio globale”, quel villaggio in cui non ci possiamo permettere più di compiere errori sperando di non pagarne prima o poi le conseguenze. Dire questo non significa affatto far proprie le ragioni di quell’ideologia anti-occidentale e anti-americana i cui rappresentanti hanno avuto modo più volte di esibirsi, in televisione, sui giornali o sulle piazze, negli ultimi mesi. Infatti le democrazie occidentali possono e debbono rimproverarsi le loro colpe solo perché e fin quando rimangano coerenti con i principi che le ispirano, cioè l’uguaglianza, la libertà, la solidarietà, la giustizia sociale. Rimproverarsele è un dovere proprio perché, commettendole, queste democrazie non hanno mantenuto le promesse che sono implicite nel loro spirito, nella loro natura, nei loro presupposti di valore. Chi invece non fa propri questi principi, com’è il caso di gran parte della cultura politica della sinistra radicale, italiana e non italiana (“non globalisti” e un bel nucleo di pacifisti compresi), critica le colpe in questione solo a prezzo dell’incoerenza, perché lo fa sulla base del rifiuto di quei valori morali e di quella tradizione politica che, pur con molti limiti, hanno consentito che si sia potuta realizzare nella storia degli ultimi secoli la lotta contro la disuguaglianza, l’emarginazione politica e sociale, l’intolleranza, l’ingiustizia. Le vicende di questo secolo ci autorizzano ad essere legittimamente sospettosi di fronte a chi lotta contro il deficit di libertà e giustizia delle nostre democrazie inalberando ancora le icone di Che Guevara, di Marcos, di Lenin, poiché ormai abbiamo imparato a sufficienza che questi volti non segnano la storia dell’emancipazione nella libertà, ma delle diverse varianti dell’ideologia comunista, che è sempre stata ideologia e prassi dell’illibertà. E’ quanto hanno compreso buona parte degli ex-comunisti italiani. Detto in altri termini: le istanze di uguaglianza sociale espresse dai movimenti comunisti nella loro storia possono essere concretizzate solo nell’ambito della democrazia liberale, a prezzo altrimenti di perdere per strada, com’è avvenuto nelle società dell’Est europeo fino alla caduta del muro di Berlino, sia l’uguaglianza sociale che la libertà politica. Ma perché le nostre democrazie restino coerenti con i loro principi ispiratori è necessario che, per così dire, non giochino al ribasso con essi. Realizzare una cittadinanza libera e uguale a livello non più solo nazionale ma globale implica mettere in atto progetti riformatori in grado di incidere a fondo sull’iniqua distribuzione delle risorse nell’ambito dei paesi ricchi e nel rapporto tra paesi ricchi e paesi poveri. Implica, detto in una parola, che la democrazia si allarghi dal piano politico-formale a quello sociale e sostanziale. E qui, appunto, proprio nella misura in cui ciò comporta di mettere in questione assetti sociali ed economici fortemente stabilizzati, subentra il rischio del gioco al ribasso. Esso si concretizza, a livello delle politiche nazionali, nella chiusura in se stesse delle classi economicamente avvantaggiate a difesa dei privilegi acquisiti e, in campo internazionale, nell’imposizione di un modello economico ricalcato sulle esigenze e sull’egemonia permanente delle nazioni ricche su quelle povere. Nello stesso tempo gli obiettivi di giustizia sociale e di uguaglianza economica, riposti di fatto nel cassetto, vengono surrettiziamente compensati con parole d’ordine demagogiche diffuse da mass-media compiacenti. La politica “virtuale” cerca di mascherare il carattere oggettivamente conservatore delle scelte governative, che vengono invece presentate come scelte “progressiste”. In tale contesto l’insistenza sulla libertà del mercato, dell’impresa, dei soggetti sociali, culturali, educativi, fa passare in secondo piano, fino ad annullarlo, l’obiettivo dell’equità sociale ed economica, che richiederebbe l’intervento di una mano pubblica, ormai definitivamente etichettato come “statalismo”, “assistenzialismo”, “centralismo”. Ne fa le spese la stessa costruzione dell’Europa, ridotta alla sua dimensione meramente economica, mentre la politica, come accade in molti Stati di questa parte del mondo (compreso il nostro), sembra destinata a dover seguire priorità imposte dai grandi interessi privati, perdendo pressoché ogni autonomia rispetto a questi ultimi. Al governo politico dell’economia, che è un principio irrinunciabile della democrazia, subentra la subordinazione della politica all’economia in nome di una “libertà” che rischia di diventare solo la libertà di chi ha già le risorse per farsi valere in una mercato in cui non esistono più vincoli di alcun genere. Se le cose stanno così, è evidente che siamo di fronte a una situazione che non è esagerato definire drammatica. Di fronte al bivio consistente nello scegliere se rimanere coerenti con i propri ideali, avviando riforme in grado di incidere sulle strutture sociali ed economiche esistenti (quindi modificando la propria natura capitalistica), o se evitare le difficoltà e i prezzi insiti in questa via frenando le proprie potenzialità emancipative, i cittadini di molte democrazie di inizio millennio sembrano essersi orientati per la seconda alternativa. I governi liberal-conservatori che oggi le guidano sono l’espressione di tale orientamento. Una sinistra che fa fatica a ritrovare la propria identità dopo l’89 e che, anche per questo, ricomincia a strizzare l’occhio a un movimentismo quanto mai ambiguo (come si è fatto già notare) nella sua natura e nei suoi obiettivi non pare per adesso in grado di riprendere un’efficace iniziativa politica. In questo stallo le nostre democrazie si avvitano su se stesse e fanno emergere sempre più, invece di ridurlo, lo scarto tra gli ideali democratici e la realtà delle società che si legittimano sulla base di essi. Cittadini che più o meno per due terzi sono abbastanza soddisfatti del loro tenore di vita e non paiono affatto disposti a pagare il prezzo che una maggiore equità complessiva comporterebbe offrono il loro consenso a governi che gli assicurano, quanto meno, la stabilità del loro status. Ai nuovi poveri che bussano alle frontiere basta opporre il volto deciso di chi afferma di aver imparato la lezione di un’accoglienza troppo generosa e di chi ostenta la “superiorità” della propria civiltà sul resto del mondo. Senza capire che il confronto tra civiltà e culture non è una sorta di pista con traguardo finale al migliore (o presunto tale), ma un continuo sforzo, come ricorda Gadamer, di “fusione degli orizzonti”, cioè un tentativo mai finito di comprensione reciproca tendente ad accogliere da ogni cultura ciò che può offrire per migliorare la vita di uomini e donne nel nostro difficile mondo. Ed essendo disposti a pagare di tasca propria, quando ce n’è bisogno.

AUTORE: Roberto Gatti