Dall’estate 2012, la città siriana di Aleppo è contesa. Da una parte i ribelli, dall’altra l’esercito governativo. In mezzo la popolazione allo stremo, bisognosa di tutto, specie ora che si trova sotto il freddo pungente e sotto le bombe. Come quelle cadute domenica 15 dicembre sui quartieri controllati dai ribelli: 83 le vittime, tra cui molti bambini, secondo attivisti locali. “Una strage impressionante – dice con tono sommesso l’arcivescovo melchita di Aleppo, mons. Jean-Clement Jeanbart – che macchia la festa del Natale, ormai vicina. Cerchiamo di fare il possibile per infondere speranza alla gente perché goda di quella gioia che la nascita di Gesù riesce a trasmettere. Ma non è facile”. Mentre nelle zone periferiche della città si combatte duramente a colpi di artiglieria, in quelle più centrali la gente si muove maggiormente per cercare di rimediare il necessario per vivere. Non solo materialmente. “I nostri fedeli – aggiunge l’Arcivescovo – vengono in chiesa a cercare conforto spirituale. Per Natale ci aspettiamo molta affluenza, e per questo motivo verrà raddoppiata la sicurezza. Le comunità cristiane in questi giorni potrebbero diventare obiettivi di attentati terroristici. Pregheremo per la pace e per i nostri fratelli di Maaloula, dove la situazione è drammatica; e per i vescovi, sacerdoti e monache in mano ai rapitori. Non sappiamo cosa sta accadendo nel villaggio. Le ultime notizie risalgono a pochi giorni fa, poi più nulla”. Per il presule “è difficile comprendere le ragioni di così tanta violenza. Ma questo non deve impedirci di guardare con speranza al futuro. Il nostro futuro sono i bambini, per i quali stiamo preparando alcune feste, e le loro madri, spesso dimenticate. Sono loro che si danno da fare per ridare senso e dignità alle famiglie più disperate. Gesù Bambino – è la preghiera di mons. Jeanbart – possa donarci la pace! Che la Conferenza di Ginevra, a gennaio, possa portare decisioni utili alla pace e riconsegnare la Siria ai siriani!”.
In Iraq, intanto, l’ultimo fatto di violenza risale al 15 dicembre: una presentatrice della televisione irachena, Nawras al-Nuaimi, è stata assassinata nei pressi della propria abitazione. Stessa sorte pochi giorni fa è toccata a un giornalista cristiano. Mentre alla fine di ottobre un’autobomba è esplosa contro un gruppo di soldati uccidendone 14. In questo clima di sangue la piccola comunità cristiana di Mossul, città dell’Iraq settentrionale di oltre 1 milione e 400 mila abitanti, si appresta a vivere il Natale. “Da qualche mese – racconta mons. Amel Shimon Nona, arcivescovo caldeo di Mosul – la situazione in città si è deteriorata. Siamo tornati al clima di paura e di insicurezza del 2005 e degli anni seguenti. Abbiamo paura, ma cercheremo comunque di festeggiare il Natale nelle nostre chiese e dentro le case”. Le divisioni tra i vari gruppi etnici e religiosi si sono acutizzate, e pesano sulla comunità cristiana che dispone di un’unica arma, la coesistenza pacifica. “Le strade, i negozi – continua l’Arcivescovo – non hanno più il colore della festa, le luci sono scomparse, il clima che si respira è quello di un cambiamento dovuto al fondamentalismo islamico che si è imposto dopo il 2003. Molte persone sono meno tolleranti che in passato, e ciò provoca nei nostri fedeli la paura di non essere più accettati. Oggi siamo guardati con occhi diversi: credo che questo atteggiamento sia più pericoloso delle minacce dirette. Negli ambienti di lavoro, nelle scuole, nelle strade, non c’è più il sentimento di convivenza di prima. Con conseguenze evidenti: prima del 2003 in città vi erano 7.000 famiglie cristiane, oggi meno di 1.200”. Il Natale diventa allora anche un motivo per riunirsi e rinsaldare vincoli di amicizia e di solidarietà. Ma con prudenza, senza voler troppo apparire. I pericoli di attentati sono dietro l’angolo, per i cristiani di Mossul.
Catastrofe umanitaria
Secondo gli ultimi rapporti dell’Onu, resi pubblici il 16 dicembre, metà della popolazione siriana si trova oggi a rischio di insufficienza alimentare. Se il conflitto non verrà immediatamente fermato – è l’allarme lanciato dalle agenzie Onu – nel 2014 gli sfollati saranno oltre 4 milioni, e i rifugiati all’estero circa 3 milioni: ossia cifre doppie rispetto a quelle che si erano registrate finora. “Questa – ha denunciato Muhannad Hadi, coordinatore degli interventi Pam (Programma alimentare mondiale) per la Siria – è la peggiore crisi umanitaria che abbiamo visto negli ultimi decenni”.