Nell’intenso anno celebrativo dei 150 anni dell’Unità d’Italia (1861-2011) non è stato trascurato il ruolo di san Francesco e dei Francescani in quel frangente della storia. Infatti a Rieti si è svolto un interessante convegno dal titolo “San Francesco d’Italia. Santità e identità nazionale”, mentre a Firenze la giornata di studio “I Francescani e l’Unità d’Italia”. Come si può vedere dagli Atti dei due incontri, la frase per cui san Francesco è “il più santo degli italiani e il più italiano dei santi” tanto è famosa quanto inflazionata e forse sopravvalutata.
Così come gli studi di Paul Sabatier, essa esprime di un’attenzione crescente alla vicenda dell’Assisiate, in un certo senso una vera e propria riscoperta, iniziata nell’età romantica e positivistica. E questo avvenne per diversi motivi, ad esempio l’aspetto letterario per cui si esaltò san Francesco autore del Cantico di frate sole oppure la ricerca delle comuni origini da parte delle famiglie francescane – Osservanti, Riformati, Recolletti e Alcantarini – onde superare la conflittualità emersa dopo l’unione decretata da papa Leone XIII mediante la bolla Felicitate quadam del 4 ottobre 1897. In tutto ciò si inserì anche l’unificazione dell’Italia con tutte gli aspetti connessi, non ultimo la cosiddetta “questione romana” definitivamente chiusa con il riconoscimento dello Stato della Città del Vaticano mediante i Patti lateranensi siglati l’11 febbraio 1929. Proprio in quel giorno Pio XI paragonò l’ampiezza del nuovo Stato al corpo del Santo d’Assisi: “Pare di vedere le cose al punto in cui erano in san Francesco benedetto: quel tanto di corpo che bastava per tenersi unita l’anima”. Senza quel corpo, per quanto piccolo, il Papa non avrebbe goduto di un’effettiva libertà, mentre proprio quella sovranità territoriale gliela consentì, come venne dimostrato nei giorni dell’occupazione nazista di Roma: l’intangibilità extraterritoriale della Santa Sede permise al Papa di salvare tanti membri della futura Repubblica italiana, a partire dallo statista Pietro Nenni, e soprattutto di mediare fra le parti belligeranti perché non si combattesse in Roma. Se il Pontefice fosse stato, come voleva Giosuè Carducci, il “cittadino Mastai”, questo non sarebbe stato possibile. Sempre Pio XI precedentemente, in occasione del settimo centenario della morte di san Francesco (1226), rimarcò la differenza tra un “giusto amor di patria” e un “immoderato nazionalismo”, mettendo in guardia da uno “smoderato amor di patria”. Tale messaggio fu ripreso dal legato pontificio, card. Raffaele Merry del Val, ad Assisi il 4 ottobre durante un ricevimento in suo onore nel palazzo comunale alla presenza dell’onorevole Fedele, ministro della Pubblica istruzione e rappresentante del Governo. Infatti, “nel discorso di ringraziamento il card. Legato, ricordando gli onori tributati a Francesco dai Sommi Pontefici, da Innocenzo ed Onorio che ne confermarono la missione sublime, a Pio XI che richiamandone gli esempi di santità a lui aveva rivolto tutti i fedeli, rivendicò alla Chiesa cattolica, di cui è gloria purissima, questo Santo. Ciò però non toglie che sia pure una gloria speciale di Assisi, dell’Umbria, dell’Italia”. A questo proposito risulta interessante quanto espresso da Giuseppe Buffon, professore di storia della Chiesa presso la pontificia università Antonianum: “Da non dimenticare, inoltre, come nello stesso periodo (o forse in una fase appena successiva) venga messa in atto anche una campagna a sostegno di una rivendicazione cattolica di Francesco.
L’impegno fu assunto in prima persona da Pio XI, con la lettera enciclica Rite espiatis, emanata in occasione delle celebrazioni per il centenario della morte del santo (1926). Nella sua redazione, in che misura giocò l’amicizia tra il Papa e il francescano rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, istituzione incaricata, a sua volta, di promuovere una rivendicazione cattolica della cultura nazionale? Perché Francesco non è soltanto patrimonio dei minori, né dei cattolici e, bisogna dire, neppure dell’Italia”. Nonostante il plauso generale alle parole di Mussolini, costante fu la rivendicazione che san Francesco era e restava il santo della Chiesa cattolica. Ciò non impedì ad Arnaldo Fortini, podestà di Assisi, di riconoscere nel maggio 1939 che il centenario francescano fu il clima storico nel quale fiorì la Conciliazione. Importante fu il ruolo anche di padre Agostino Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica, ben conosciuto dallo stesso papa Pio XI che precedentemente fu arcivescovo di Milano. Come ha evidenziato in uno dei suddetti convegni Maria Bocci, una delle maggiori studiose del pensiero e dell’opera del fondatore della Cattolica, “ribaltando la prospettiva mussoliniana, che poco dopo la Conciliazione aveva definito il cristianesimo una setta orientale universalizzata dall’incontro con la romanità imperiale, Gemelli sosteneva che era la romanità ad aver bisogno del cristianesimo, e per farlo ricorreva ai protagonisti della storia cristiana che avevano dato lustro anche a quella italiana, a cominciare naturalmente da san Francesco”. Da tutto ciò si evince che, in riferimento all’immagine di san Francesco e alle figure a lui correlate, vi fu una sottile ma importante tensione tra identità nazionale – in fattispecie del regime fascista – e rivendicazione dell’universalità cattolica della Chiesa. Come ebbe a dire sempre Giuseppe Buffon: “Francesco d’Italia”: una rivendicazione nazionale del santo, in fondo, non era nemmeno necessaria. Una tale appartenenza non solo non gli è mai stata contestata, bensì fu perfino ambita dai suoi tanti ammiratori, compresi gli stranieri, che in lui e tramite lui pare cercassero una determinata dimensione ambientale, culturale, artistica, sociale, paesaggistica e addirittura climatica. La designazione di “Francesco nazionale” è indubbiamente frutto di una costruzione storiografica e ideologica. Risultando però un’operazione ben riuscita, sembra non abbisognasse di ulteriori particolari rivendicazioni; essa, fornendo anzi quella base di univocità o equivocità, che divenne la leva per una conciliazione tra fronti diversi e opposti, giunse a produrre una ibridazione che perdura fino ad oggi quale pericoloso e fortunato “equivoco”.
L’olio delle regioni: la lampada votiva
Alla tomba di Francesco arde la lampada votiva alimentata dall’olio che i Comuni d’Italia offrono annualmente tramite quella Regione che a turno li rappresenta in occasione della festa del Santo. La prima volta fu accesa il 4 ottobre 1939 quando Pio XII proclamò Francesco d’Assisi patrono primario d’Italia. I Comuni della nazione offrirono al Patrono l’artistica lampada affidando all’architetto Ugo Tarchi il compito di disegnarla. Nel settembre 1937, Tarchi inviò al Padre generale il disegno della lampada, con una dettagliata descrizione: “La lampada votiva, di m 1,20 di altezza, è tutta in bronzo lucido ed argento. L’asse centrale, forgiato a croce, s’innalza dal centro della tazza che, nella sua forma semisferica, simboleggia il mondo. In alto, la turrita corona d’Italia reca, nei quattro scudetti, lo stemma di Casa Savoia, il fascio littorio, la lupa romana e lo stemma della città di Assisi. Sull’orlo della coppa staccano contro il fondo luminoso dell’alabastro le parole del verso dantesco: ‘Altro non è che di suo lume un raggio’ (Par. XXVI, 33). Al di sotto della coppa la frase dedicatoria: ‘I Comuni d’Italia al Santo’. Al di sopra della tazza, tre colombe d’argento sostengono col becco una corona di ulivo, sovrano e universale simbolo di pace”.