Il ricco non ha un nome, è semplicemente “un ricco”. Il povero si chiama Lazzaro, che vuol dire “Dio aiuta”. La parabola, narrata da Luca nel suo Vangelo, vuole sottolineare il rapporto tra il credente e le ricchezze, e stigmatizza la spensieratezza di chi non si accorge di ciò che gli accade attorno. Per usare un’espressione di Papa Francesco, è la “globalizzazione dell’indifferenza”: quel ricco, che veste abiti lussuosi, non pensa a chi sta seduto alla sua porta e desidera sfamarsi delle briciole che cadono dal suo tavolo. Nessun elogio della povertà, della condizione di miseria: ma solo una messa in guardia di fronte al rischio che nella condizione di ricchezza e di benessere arrivi la spensieratezza che ci fa dimenticare l’altro, la nostra condizione e, soprattutto, ci fa dimenticare Dio.
Domenica Papa Francesco ha celebrato sul sagrato della basilica vaticana la messa per i catechisti, venuti dai cinque Continenti. Ha citato il profeta Amos: “Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri… e non si curano dei problemi degli altri”. Parole, afferma il Papa, “che ci mettono in guardia da un pericolo che tutti corriamo”, cioè “il rischio di adagiarsi, della comodità, della mondanità nella vita e nel cuore, di avere come centro il nostro benessere”.
Quel ricco non ha nome perché Luca vuole sottolineare che il rischio dell’indifferenza può toccare ognuno di noi, fino ad arrivare a far credere che nell’avere di che vivere e prosperare c’è una sorta di autosufficienza non solo materiale ma anche spirituale: non abbiamo bisogno di nulla, e non dobbiamo chiedere nulla a Dio. Nella povertà di Lazzaro, invece, c’è un affidarsi totalmente al Signore, e tutto ha senso perché tutto ci riguarda.
Rivolgendosi ai catechisti, Francesco ricorda che “se le cose, il denaro, la mondanità diventano centro della vita, ci afferrano, ci possiedono, e noi perdiamo la nostra stessa identità di uomini”. Le cose che il ricco del Vangelo possiede “sono il suo volto, non ne ha altri”. Quando ci chiudiamo e mettiamo la nostra sicurezza nelle cose, “che alla fine ci rubano il volto”, perdiamo “la memoria di Dio” e tutto, afferma Francesco, “si appiattisce, tutto va sull’io, sul mio benessere. La vita, il mondo, gli altri, perdono la consistenza, non contano più nulla, tutto si riduce a una sola dimensione: l’avere”.
Il catechista è colui che custodisce e alimenta la memoria di Dio. Torna, nelle parole di Francesco, il verbo custodire, che significa non solo proteggere, tenere nel proprio cuore, ma anche far crescere, portare con sé, mostrare agli altri. È il compito del catechista, dunque, custodire e fare memoria di Dio, custodirla e risvegliarla negli altri: “Se perdiamo la memoria di Dio, anche noi stessi perdiamo consistenza, anche noi ci svuotiamo, perdiamo il nostro volto come il ricco del Vangelo. Chi corre dietro al nulla diventa lui stesso nullità”, perché – afferma il Vescovo di Roma – siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio, non delle cose, degli idoli.
Il brano di Luca dice anche qualche altra cosa sul destino ultimo dei due: “Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto”. Che diversità. Più ricca di dettagli la fine di Lazzaro, quasi un inciso la morte del ricco; forse per ricordarci che gli ultimi saranno i primi. Francesco ci aiuta con un’altra immagine: Maria “che, davanti all’azione meravigliosa di Dio nella sua vita, non pensa all’onore, al prestigio, alle ricchezze, non si chiude in se stessa”. Non solo accoglie l’annuncio dell’angelo e mette al mondo il figlio di Dio, ma va dall’anziana Elisabetta, “anch’essa incinta, per aiutarla; e nell’incontro con lei il suo primo atto è la memoria dell’agire di Dio, della fedeltà di Dio nella sua vita, nella storia del suo popolo, nella nostra storia”.
La fede, afferma Francesco, “contiene proprio la memoria della storia di Dio con noi, la memoria dell’incontro con Dio che si muove per primo, che crea e salva, che ci trasforma”. E il catechista è “un cristiano che mette questa memoria al servizio dell’annuncio; non per farsi vedere, non per parlare di sé, ma per parlare di Dio, del suo amore, della sua fedeltà”.