Tre parabole di festa divina

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini XXIV Domenica del tempo ordinario - anno C

La lunga lettura evangelica di questa domenica si estende per l’intero capitolo 15 del Vangelo secondo Luca. Il quadro iniziale presenta Gesù in conversazione con gli esattori delle tasse e i peccatori che gli si avvicinavano per ascoltarlo. Dall’altra parte della scena c’è il gruppo dei benpensanti, scribi e farisei che mormorano, bofonchiando: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. L’evangelista ci tiene a sottolineare che i disprezzati ascoltano volentieri Gesù, mentre i rispettabili mantengono le distanze. Nelle intenzioni dell’evangelista, quel verbo “mormorare” rimanda lontano: ai tempi della lunga marcia nel deserto, il popolo si ammutinava e mormorava contro Mosè e contro Dio (Es 15,24; Nu 20,2).

A somiglianza dei mormoratori del deserto che non sarebbero mai entrati nella terra promessa, scribi e farisei non entreranno nel Regno. In questo scenario Gesù disse loro questa parabola. In realtà le parabole raccontate sono tre, ma in fondo è una sola; essa rivela che, nel regno di Dio, ritrovare ciò che era perduto suscita gioia incontenibile e provoca la festa. La prima parabola ha per protagonista un pastore, proprietario di un gregge ragguardevole di cento pecore. Nella seconda, una casalinga possiede un tesoretto di dieci dracme (con una dracma si comprava un montone). La terza parabola presenta un proprietario terriero che ha due figli, di età diversa e diversi anche di indole. Le prime due parabole sono gemelle nella struttura: la prima è declinata al maschile, la seconda al femminile (Luca è sempre attento a rilevare l’importanza delle donne nella comunità cristiana). In tutte e due c’è una perdita, una ricerca affannosa, un ritrovamento, una grande gioia, una convocazione di amici e vicini, chiamati a condividere la gioia del ritrovamento e fare festa.

La terza parabola è più elaborata. I personaggi che interagiscono sono tre: un padre e due figli. Si discute da tempo chi ne sia il protagonista. Tutti ricordiamo che fin da bambini l’abbiamo sentita chiamare “del figlio prodigo”. Più recentemente è stata detta “del Padre misericordioso”. Ancora più recentemente, “dei due fratelli”. Nel primo caso l’attenzione si concentra sul figlio minore, archetipo del peccatore convertito e gratuitamente perdonato. Nel secondo caso lo sguardo si fissa sul padre, che perdona il figlio scialacquatore al di là di ogni logica umana, ma è attento anche all’altro figlio, che si rifiutava di partecipare alla festa.

Nel terzo caso si mettono in luce le complesse dinamiche tra i due fratelli e di ciascuno con il padre. Questi modi diversi di leggere la parabola non si oppongono ma sono complementari. Il parlare in parabole si presta sempre ad essere ascoltato su molti piani. Fin dall’inizio è delineato il carattere dei personaggi. Il minore è un ragazzo insoddisfatto dell’aria casalinga, che sogna una vita felice lontano dal solito tran-tran. In modo inusuale, chiede al padre la parte di eredità che gli spetta. Il padre, senza fare obiezioni, fa le divisioni. Il figlio maggiore per ora non compare. Sappiamo che c’è, ma non sappiamo ancora nulla di lui. Il racconto poi segue le vicende del figlio minore: partenza per l’estero, vita spendacciona, dissoluta, imprevidente.

Una delle carestie ricorrenti si abbatte sulla zona e lo sorprende che non ha più un soldo in tasca. Per non morire è costretto a fare il porcaio; ma la fame non lo lascia. A questo punto assistiamo allo snodo del racconto. Il testo lo esprime semplicemente: “rientrò in sé”, prese una decisione dura, ma l’unica possibile per non morire davvero. Tornerà dal padre, chiederà scusa del suo errore e domanderà di essere assunto come bracciante. E inizia il cammino di ritorno.

A differenza del pastore e della casalinga, il padre non si affanna nella ricerca del figlio, ma aspetta: sarà la durezza della vita a riportare a casa il figlio. Lo scorge da lontano e, al di là ogni logica e consenso sociale, gli corre incontro, lo abbraccia, lo bacia, ordina di rivestirlo della ritrovata dignità filiale e di preparare un solenne banchetto in suo onore. A questo punto facciamo la conoscenza anche del primogenito: buon lavoratore, ligio alle regole, incapace di sentirsi figlio, brontolone quanto basta.

Tornando dal lavoro dei campi, sente aria di festa; domanda che cosa stia succedendo; viene a sapere che la festa è per il fratello tornato. S’impunta e si rifiuta di entrare: “Questo è troppo – dirà al padre, che era uscito a pregarlo -, io non ho mai trasgredito… tuo figlio ha scialacquato il tuo patrimonio… e tu gli fai pure festa”. La risposta del padre rivela il senso definitivo della parabola: il ritorno di un figlio è sempre una risurrezione. Ogni domenica, insieme alla risurrezione di Gesù, festeggiamo anche quella di ciascuno di noi: tutte le volte cioè che Dio ci ha accolto di ritorno dal nostro vagabondare lontano da Lui.

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all’Ita di Assisi