Come sempre nei viaggi papali molti sono i gesti e moltissime le parole che vengono pronunciate. Vi sono pure le folle, ora più massicce, ora più esigue, ma sempre folle che si muovono, prendono parte, si accalcano, ascoltano, vedono, si confrontano tra loro.
Il Paese visitato viene posto al centro dell’attenzione mondiale, vive un momento di protagonismo massmediatico, si sente coinvolto in un evento che travalica i propri confini e assume un carattere “storico”.
La lingua di quel popolo è parlata dal Pontefice con sicura padronanza, per cui l’ospite non si comporta da straniero, bacia la terra e benedice la gente che incontra, tutti senza distinzione. Augura la pace e la prosperità: “Dio benedica l’Ucraina!”.
Tutto ciò, che appartiene all’ormai sperimentata struttura dei viaggi papali, si è notato con particolare evidenza in Ucraina, dove Giovanni Paolo II ha dato l’impressione di respirare finalmente con i due polmoni quello orientale e quello occidentale che per lunghi secoli sono stati isolati, creando all’unico organismo che è la Chiesa un’asmatica respirazione.
All’inizio del secondo millennio, per aprire nuove strade all’evangelizzazione (duc in altum), non è più consentito al popolo di Dio, sacramento di unità e di pace con Dio e tra gli uomini, di avere un respiro corto e affannoso.
Questa è l’ansia che spinge Giovanni Paolo a compiere anche questo che ha definito un viaggio “politicamente scorretto”, ed è paragonabile all’ansia di Paolo, apostolo audace e inopportuno. Questa motivazione di fondo si articola in altre che sono scritte nella storia personale di questo pontefice slavo e polacco.
Nessuno come lui poteva sentire il desiderio di portare la richiesta di perdono, non solo da Papa, ma anche da polaccio, e una parola di riconciliazione per porre una pietra definitiva sulle secolari discordie tra polacchi e ucraini, allontanando persistenti strascichi di incomprensione, diffidenza e sospetto che ancora persistono tra le due comunità.
Egli è anche deciso a risolvere l’antica querelle dell’uniatismo, che non può essere facilmente liquidata da commentatori frettolosi che freddamente, a tavolino si permettono, come abbiamo letto in una nota di Nev, di liquidare la storia di quel popolo come “frutto velenoso della controriforma” che avvelena il clima ecumenico.
Questi cristiani cattolici hanno vissuto e sofferto a causa della loro fedeltà a Cristo e a Roma. Dal punto di vista ecumenico ad essi si deve applicare lo stesso ragionamento usato per le altre situazioni storiche, secondo cui le colpe e gli errori che eventualmente vi siano stati all’origine delle divisioni, questi non sono imputabili a coloro che sono venuti dopo e si sono trovati inseriti in comunità ben formate e consolidate alle quali devono la fede e la grazia.
La “purificazione della memoria” deve valere anche per i cattolici di rito bizantino, come da parte loro deve essere applicata all’Ortodossia. Ciò comporta una grande dose di umiltà e di sapienza del cuore nel riconoscimento dell’azione di santificazione che lo Spirito di Dio ha potuto continuare a compiere in queste Chiese pur divise tra di loro. Lo Spirito non si lascia irretire dalle cortine di qualsiasi tipo e scende dall’alto dove non arrivano i muri della separazione.
È stato centrale anche in Ucraina il segno altamente ecumenico del martirio. Indubbiamente la canonizzazione dei 30 beati di cui 27 sono martiri del comunismo è un atto specifico della Chiesa cattolica secondo il rito della propria tradizione, ma, come in altre circostanze il papa ha additato alla ammirazione e all’esempio tutti coloro che hanno offerto la propria vita per Cristo e persino coloro che sono stati uccisi semplicemente perché portavano un nome ebraico nella loro carta d’identità.
Gli “amati fratelli ebrei” massacrati dai nazisti ricordati nel mausoleo eretto a Babyi Yar in memoria delle 100mila vittime tra cui anche zingari e partigiani. Mentre scrivo questa nota il Papa sta con i giovani e canta con loro. Una scena già vista durante la Gmg del Giubileo.
Bisogna rimarginare le ferite e riconciliare le nazioni e i cuori per dare un futuro di speranza ai giovani. Ha ragione anche il Patriarca Alessio: non bastano le parole. Non bastano neppure i segni, è necessario lo Spirito. Ora tocca proprio a Lui.