Otto proposte per “una grande svolta culturale” sul lavoro, in crisi per la “debolezza delle nostre istituzioni politiche” e a causa di un mercato “spesso bloccato da troppe rigidità legislative e corporative”. Si conclude così il Rapporto-proposta della Cei Per il lavoro, presentato a Roma il 13 maggio. Abbiamo intervistato Michele Tiraboschi, docente di Diritto del lavoro all’Università di Modena-Reggio Emilia, nonché uno degli esperti che ha collaborato maggiormente alla sua stesura.
La prima proposta operativa del Rapporto è di “liberare il lavoro”: in che modo la contrattazione aziendale e territoriale possono concorrere a realizzare questo obiettivo?
“La nostra è una stagione economica che tutti riconosciamo come non facile, eppure, quando ragioniamo in termini giuridici, rischiamo di non cogliere quel dinamismo che comunque c’è e le opportunità di lavoro che pure esistono. Questo in virtù di regole centralistiche, dirigistiche, calate dall’alto, che non rispettano le diversità tra settore e settore. Occorre liberare il dinamismo del lavoro tenendo conto della pluralità del mercato. La contrattazione aziendale e territoriale, ma anche individuale, consentono alla domanda e all’offerta di lavoro di incontrarsi, regolando caso per caso il rapporto lavorativo e tenendo conto della diversità di ogni lavoratore. I contratti collettivi nazionali restano lo ‘zoccolo duro’ che va salvaguardato, ma nel contempo occorre tenere conto della realtà concreta di ogni azienda, che può essere in fase di espansione o di contrazione, di grandi o piccole dimensioni, localizzata o multinazionale… Serve, in sintesi, un’azione cooperativa che rispetti il lavoro ‘plurale’ e lo riconosca come una ricchezza, senza ingabbiarlo in lacci e lacciuoli”.
Uno degli aspetti più originali del Rapporto è la proposta di rivalutare il lavoro intellettuale. Come e perché?
“Se vogliamo essere più ‘produttivi’, occorre innovare, cambiare: il ruolo della ricerca, sia pubblica (nelle università) sia privata, è un lavoro spesso non valorizzato. In genere, quando pensiamo al lavoro, pensiamo solo al lavoro manuale o al lavoro operaio: il lavoro intellettuale, invece, esprime talenti e vocazioni a cui è essenziale attingere per produrre innovazione. È un valore che genera valore, una creatività che diventa trainante”.
Altra parola di punta, “meritocrazia”, che però in Italia rischia di restare quasi invisibile…
“L’impostazione del Rapporto è molto pragmatica, e parte dal ‘principio di realtà’, dalla consapevolezza che la parola ‘meritocrazia’ è usata a volte così spesso da aver perso il suo valore. Meritocrazia significa libertà di svolgere un’occupazione coerente con le proprie aspettative e attitudini, partecipare responsabilmente al processo produttivo, dare un apporto consapevole e ottenere una quota di redistribuzione rispetto a quanto si è creato. Un approccio ‘egualitario’ al mercato del lavoro ha finito per penalizzare molte attività lavorative sulla base del principio del ‘trattamento uguale a casi uguali’. Bisogna invece premiare di più, sulla base della responsabilità”.
L’ultima proposta operativa è la lotta alla precarietà, che però oggi – si legge nel Rapporto – è un aspetto “intrinseco”, strutturale del lavoro stesso…
“Nel Rapporto, sulla scia dei Rapporti precedenti, si fa presente che l’Europa non è più il centro del mondo, anche se continua a occupare una posizione centrale, perché lo scenario geo-politico è cambiato, e questo incide sulla visione e sui rapporti di lavoro. Il ‘principio di realtà’, quindi, ci impone di contrastare il precariato, ma stando dentro alla precarietà: ciò significa, per i giovani, non rifiutare lavori che attualmente sono appannaggio degli immigrati, ma che in passato hanno fatto la fortuna del made in Italy, con l’intento di scoprire – dall’interno, per poi magari trasformare, migliorare e progredire – il lavoro come partecipazione e progetto”.
I dati in Umbria
Il 31 maggio scade la cassa integrazione in deroga per 14.000 lavoratori umbri. Negli ultimi tre anni la nostra regione ha già perso 28.000 posti di lavoro e oggi tocca un livello di disoccupazione pari al 14% (inclusi i cassintegrati) ma nei prossimi mesi la situazione potrebbe ulteriormente aggravarsi. “Fare sistema e concertazione – ha dichiarato Alvaro Burzigotti, imprenditore di Umbertide e nuovo presidente della Confesercenti regionale – in questo momento di crisi generale è l’unica strada per risalire la china. La situazione è decisamente difficile: solo nel 2013 chiuderanno 2.500 imprese, con il forte rischio, se non si cambia rotta, che il bilancio possa diventare ancora più pesante”. In base ai dati raccolti dall’Osservatorio della Confesercenti regionale, sono già oltre 200 (204 per la precisione) gli esercizi commerciali ad aver chiuso i battenti in Umbria nei soli primi due mesi del 2013. In media quasi 3 al giorno, con un vistoso crollo delle aperture di nuove attività (50, per un saldo negativo di 154 unità). Se si confrontano questi dati con quelli dell’Istat, aggiornati al 2012, si nota ancora di più la china negativa: per l’Istat, infatti, la disoccupazione in Umbria ammontava ‘solo’ all’11%, e già così la regione risultava la peggiore del Centro-Nord, in una situazione di crisi che la assimilava alle aree depresse del Meridione.