Nell’incontro che noi Vescovi umbri abbiamo avuto con Papa Francesco, è tornato un tema che aveva già fatto clamore in un discorso pontificio di qualche settimana fa. Il Papa invitava la Chiesa a uscire dai suoi recinti e a slanciarsi verso le periferie. Restando chiusi – faceva notare -, si ristagna. Si crea aria pesante. Al contrario, riprendere il largo della missione, portando l’annuncio dentro le periferie dell’umanità, lì dove regnano il degrado, la povertà, l’ingiustizia, l’emarginazione, ma anche nelle periferie del non-senso, del dubbio, della crisi culturale e morale, fa riprendere alla Chiesa il suo tono originario, quello della missione. Discorso bello, che ci fa risentire la freschezza del “manifesto” con cui Gesù inaugurò la sua missione nella sinagoga di Nazareth, quando ai suoi concittadini, aprendo il rotolo del profeta Isaia e dichiarandone l’attuazione nella sua persona, presentò il suo annuncio come un “evangelizzare i poveri”, un aprire gli occhi ai ciechi, uno spezzare le catene dei prigionieri, insomma, una grande liberazione (cf Lc 4,14-21). Un accento come questo ben corrisponde al nome che il Papa ha scelto: Francesco. Chi più del Poverello scelse le “periferie”? Perfino nella “topografia” della sua conversione, i punti della città che scandirono il suo cammino verso Dio non furono, perlopiù, dentro le mura della città, ma fuori. A San Damiano visse il momento del silenzio contemplativo, di fronte a un Crocifisso dagli occhi larghi e profondi che gli trafisse il cuore. Nella piana di Rivotorto incontrò i lebbrosi: si vede ancora il luogo dove si raccoglieva l’umanità più emarginata del tempo, verso cui egli fu spinto da un moto di misericordia che aprì il suo cuore all’amore e gli procurò, come egli stesso dice nel Testamento, “dolcezza di anima e di corpo” (Fonti francescane,111). E dove poteva porre il ‘quartier generale’ della sua fraternità, se non in una chiesina come la Porziuncola, le cui minuscole dimensioni ancora danno il senso della “piccolezza”, la misura amata da Francesco, che nella povertà colse la logica stessa di Dio che si fa piccolo per farsi dono? Papa Francesco ci spinge dunque, sulle orme del Santo di Assisi, verso le periferie! Nel dialogo che abbiamo avuto con lui, ci ha spiegato che, in definitiva, non si tratta solo di una attenzione alle povertà che sempre deve caratterizzare l’agire ecclesiale, ma di un modo di essere Chiesa, una maniera di sentirsi “pellegrini”, che non amano stazionare all’interno di bastioni protettivi ma imboccano le vie del rischio e del dono. Può capitare, in questo andare senza protezioni, l’incidente; ma restare dentro per paura sarebbe una malattia.
E Papa Francesco non ha dubbi: meglio una Chiesa “incidentata” che una Chiesa malata! Parole ripetute. Dovremo riflettere su questo invito. Anch’esso sta dentro questa sorta di soffio primaverile che il pontificato di Papa Francesco sta suscitando, e che ci spinge a rivedere lo stile ecclesiale, recuperando la primavera del Concilio e facendone un programma coraggioso di rinnovamento. Certamente, cinquant’anni da quell’impulso dato alla Chiesa dall’intuizione profetica di Papa Giovanni non sono passati invano. Ci hanno lasciato delle lezioni che dovremo tener presenti. Abbiamo imparato, ad esempio, che la Chiesa che esce in campo aperto per un nuovo dialogo con il nostro tempo non può essere la Chiesa di un attivismo frenetico che dimentica la contemplazione, né la Chiesa che in nome del dialogo mette tra parentesi l’annuncio del Vangelo. E nemmeno la Chiesa che concepisce i poveri e la povertà in termini sociologici, dimenticando che ci sono povertà profonde che abitano il cuore più che le vesti, e che hanno bisogno, non meno delle prime, di una attenzione premurosa. Insomma, ci rimettiamo in stato di missione, facendo tesoro delle lezioni di mezzo secolo che è stato di crescita e di prova insieme. Occorre fare sintesi L’impulso è stato dato, e un Papa di nome Francesco, con il suo solo nome, ci incalzerà.