Non è raro il caso che giungano nelle redazioni dei giornali e anche nella nostra redazione lettere anonime che intendono, talvolta anche in buona fede e con dichiarata e forse sincera intenzione, promuovere la giustizia o riparare qualche danno o denunciare abusi e cose simili. La delazione, sotto varie forme, era praticata presso i romani, usata come arma politica per combattere gli avversari ed era materia di normative giuridiche. Si sa che a Venezia nei tempi del massimo splendore della Repubblica la delazione era richiesta dal fisco in modo da conoscere e costringere a pagare le tasse chi aveva rendite o incarichi nascosti. Un mascherone in bassorilievo invitava a mettere lettere contenenti “denontie segrete” di persone che occultavano cariche o altre rendite. L’uso dell’anonimato appartiene ad una prassi diffusa nel tempo e nello spazio e utilizzata per scopi più vari. Non è detto che una denuncia essendo anonima sia anche falsa e riporti notizie inventate di sana pianta. “Perché, allora, – si dirà – non pubblicare, (come facciamo noi) e prendere per buone le lettere anonime? Che male c’è quando vi è di mezzo la difesa di un bene comune come il pagare le tasse o rimediare ad un’ingiustizia?”. La risposta è ovvia e risaputa: chi scrive deve prendersi la responsabilità di quello che afferma, deve metterci la faccia, come si dice, altrimenti si attiva uno strumento che può dare adito alle peggiori tentazioni. Quando si ha odio o rancore contro qualcuno, quando si vuol far fuori un concorrente, distruggere una persona o una famiglia, basterebbe una letterina non firmata e quella persona è finita. Questo pericolo è tanto grave, capace di inquinare ogni rapporto di fiducia nelle relazioni sociali, che deve essere evitato per principio e in modo generalizzato e perentorio, non dando alcun valore di verità a nessuna lettera anonima. Anche nella Chiesa, chi vuol essere “profeta” e vuol mettere in atto la parresia, che sarebbe il parlare chiaro con coraggio senza inibizioni o paure di sorta, deve farlo a viso aperto. Purtroppo succede che si tace e si chiude un occhio su tante cose storte fino al momento in cui si sono aggravate a tal punto che non si ha più il coraggio di parlare. Come in altri ambiti del comportamento umano la prevenzione e il tempismo sono da preferire alla denuncia e alla lamentela. Una opportuna e rispettosa correzione fraterna in tempo, un esercizio del discernimento comunitario che mette a riparo chi fa delle critiche all’operato delle comunità ecclesiali, prima che sia troppo tardi, è da preferire all’invettiva, al mugugno e alla denuncia sommaria e generalizzata. In una società normale, anche se non perfetta, non dovrebbe esserci bisogno di ricorrere all’anonimato per affermare certi valori, principi e diritti, compreso il diritto di conoscenza e informazione, evitando forme di ipocrisia, purtroppo diffuse e di piaggeria scambiata per rispetto e buona educazione. Lo stile di comunicare secco e diretto di Papa Francesco potrebbe orientare il parlare dei cristiani, fedeli e pastori, ad usare un linguaggio senza retorica, semplice ed essenziale che riprende e corregge senza nascondere né offendere. Vale anche per la comunicazione in ambito politico, scaduto così in basso. Se non fosse utilizzato da un movimento ultra-tradizionalista direi che si deve sempre parlare in modo chiaro e sincero sullo stile del “sì sì, no no” proposto dal vangelo.
Il “coraggio” degli anonimi
AUTORE:
Elio Bromuri