Un Gesù inimmaginabile

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini II Domenica di Quaresima - anno C

Per entrare nella narrazione evangelica di questa seconda domenica di Quaresima è necessario ricollocarla – come ormai abbiamo imparato a fare – nel proprio contesto. Il testo di Luca inizia così: “Circa otto giorni dopo, Gesù prese con sé…” Ci domandiamo: otto giorni dopo che cosa? Otto giorni dopo la professione di fede di Pietro, che riconobbe in Gesù di Nazareth il “Messia di Dio” (Lc 9,20). Subito dopo, Gesù fu costretto a precisare che il Messia non era quel guerriero vincitore che essi ritenevano, ma che anzi avrebbe sofferto il rifiuto delle autorità politiche, religiose, culturali; che avrebbe subìto una condanna a morte, ma al terzo giorno sarebbe risorto. Fu il primo annuncio della sua vicenda di morte e risurrezione (Lc 9,22).

Aggiunse anche che chi aveva intenzione di seguirlo sarebbe andato incontro alla stesso destino (9,23-26). A giudicare dalle reazioni, sembra che il gruppetto non avesse capito granché, tanto da costringere Gesù a ripetere l’annuncio almeno altre due volte. Da quel momento trascorse una settimana. Allora con i tre più intimi e fidati, Pietro, Giacomo e Giovanni, salì sul monte a pregare. La preghiera fu lo scopo principale di quell’ascesa. Tutto avverrà nella sfera di Dio, mentre Gesù è in profonda comunione con il Padre. Durante la preghiera il suo volto divenne “altro” e le sue “vesti sfolgoranti”. Luca non usa il verbo “trasfigurare” come invece fanno Marco e Matteo, che narrano lo stesso episodio.

L’espressione lucana allude ad una realtà che ha che fare con la Trascendenza, con la “Sua gloria”, con il suo corpo spirituale, quale stabilmente avrà dopo la Risurrezione, e quale un giorno riceveremo anche noi, che oggi confessiamo il suo Nome. Apparvero anche due uomini: Mosè ed Elia, che conversavano con lui a proposito del suo “Esodo” che si sarebbe compiuto in Gerusalemme. Ossia della sua morte e risurrezione. Il tema della conversazione era in linea con quanto Gesù aveva detto la settimana precedente (9,22) e con il viaggio che avrebbe intrapreso, con decisione, nei giorni seguenti (9,51). Intanto i tre, che erano saliti sul monte con Gesù, dormivano. Il testo precisa che “erano oppressi dal sonno”. Probabilmente, con il prolungarsi della preghiera di Gesù, si era fatto notte (tempo nel quale Luca sembra collocare la scena).

I Vangeli parleranno dell’oppressione del sonno nella notte del Getsemani, quando i discepoli saranno rimproverati per non essere stati capaci di vegliare un’ora sola con Lui. Ora non c’è alcun rimprovero. Quando i tre si svegliarono, la conversazione tra Gesù, Mosè ed Elia volgeva al termine. Pietro tentò di bloccare tutto, offrendosi di costruire sul posto tre capanne, talmente la situazione gli apparve affascinante. Ma già i due antichi personaggi si stavano congedando. Una nube poi coprì tutto. I tre discepoli ebbero paura. Udirono una voce venire da dentro la nube: “Questi è il Figlio mio eletto; ascoltatelo!”.

Nei momenti fondamentali della rivelazione di Dio, nella narrazione biblica c’è sempre una montagna e una nube. Si compiva in quel momento ciò che era accaduto profeticamente secoli prima, sul monte Sinai, ai tempi di Mosè: anche allora il Signore in cima ad un monte, e da dentro una nube, fece udire la Voce, che offriva un’Alleanza. Ora la stessa Voce indicava suo Figlio come nuova ed eterna Alleanza. Poi tutto tornò normale: c’era solo Gesù, che era come lo avevano sempre visto. La cosa però era stata sconvolgente e incredibile a tal punto che non riuscirono a parlarne con nessuno. I loro occhi erano stati resi capaci di vedere ciò che l’occhio umano normalmente non vede, né la bocca possiede parole per raccontarlo.

Solo alcuni anni più tardi, dopo che l’esperienza della Risurrezione e della Pentecoste gli ebbe permesso di capire l’evento, Pietro ne parlerà nella sua Seconda lettera: “Vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli infatti ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento” (2 Pt 1,16-17). Nella seconda lettura di questa domenica, anche Paolo parla di “trasfigurazione”; non quella di Gesù, ma quella del “nostro misero corpo” (Fil 3,21). La lettera fu scritta alla comunità cristiana che viveva allora nella città greca di Filippi; la prima che egli aveva evangelizzato in Europa, arrivando dall’Asia. Ora scrive loro dalla prigione, forse da Roma, in attesa di processo. Pensando alla sua situazione di carcerato, prende rilievo quell’aggettivo “misero”; insieme alla speranza di ricevere un corpo “non costruito da mani d’uomo, eterno, nei cieli” (2 Cor 5,1).

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all’Ita di Assisi