I monaci di Fonte Avellana ci hanno detto che, tra le abitudini degli autori biblici, sul piano della comunicazione una delle più inveterate è quella di “insegnare raccontando”. E ad ogni incipit della nostra casareccia lectio divina del sabato, se inizia con un racconto, il nostro mentore Fernando Armellini ci insuffla nell’orecchio: “Questo è un racconto che… non è un racconto”. Insegnare raccontando. L’evangelista, che prima ancora è un catechista, ripetendo più e più volte il suo racconto ai membri della sua comunità, in prospettiva catechetica o kerygmatica, tende a spostare l’asse semantico del suo messaggio dal racconto all’insegnamento, fino a far impallidire gli elementi realistici del racconto, che in pratica non interessano più né a lui né ai suoi ascoltatori. Per favore, aprite il Vangelo di Giovanni sulla pagina che racconta le nozze di Cana. Certamente, nella primissima redazione di quell’evento, quella che negli anni 30 il “discepolo che Gesù amava” affidò ad un anonimo scriba perché la inserisse in una delle prime “raccolte dei detti e dei fatti di Gesù” che avevano preso per tempo a circolare nelle comunità cristiane, la vivezza del fatto in sé brillava di luce propria; e tuttavia già allora Giovanni l’aveva raccontato, quel fatto, non per farlo sapere, ma per insegnare. E adesso, dopo 60-70 anni di catechesi, insegnare è diventata l’unica cosa che gli importa: insegnare che, da quando Gesù è venuto in mezzo a noi, la religione dei figli di Abramo o impara a mettere Lui al centro o si riduce ad una festa senza vino. Se continuiamo a leggere il Vangelo delle nozze di Cana come un racconto, e solo come un racconto, come facciamo a giustificare il fatto che Giovanni, che è piuttosto restio a raccontare i miracoli di Gesù (in tutto il suo Vangelo ne narra solo sette) dà tanto spazio ad un miracolo così poco interessante in sé, e lo commenta con parole che oggettivamente non merita? E poi da parte di Gesù non sembra per nulla educativo moltiplicare il vino dei commensali che hanno già bevuto troppo. E poi, per poter disporre di altro vino, perché ricorrere a un miracolo: non bastava fare una colletta tra gli invitati? E poi quale poteva essere lo stato d’animo di quei primi discepoli, che erano stati seguaci del Battista, e lo avevano lasciato perché lo ritenevano inferiore a quel Gesù che adesso sembrava ratificare uno scandaloso eccesso di vino? E poi come mai non si parla dei protagonisti della festa: la sposa non esiste, lo sposo ha un ruolo insignificante, in primo piano ci sono solo il capotavola e i servi: è così che si racconta una festa di nozze? E poi cosa ci stavano a fare in una casa privata tante giare di pietra per le purificazioni (pesanti circa sei quintali l’una, a vuoto)? E poi perché mai Gesù prima fa riempire d’acqua le giare, e solo poi fa attingere da esse l’acqua che lui cambierà in vino? Sono tanti i perché irrisolti, se continuiamo a prendere questo racconto come… un racconto. Tanti da obbligarci a scivolare di una settimana.
Un racconto che non racconta
AUTORE:
Angelo M. Fanucci