L’espressione “porta della fede”, che ha dato il nome al motu proprio di Papa Benedetto per rilanciare la nuova evangelizzazione, fortemente proposta alla Chiesa da Papa Giovanni Paolo II nella Christifideles laici del 1988, è tratta da Atti 14,27. Paolo e Barnaba relazionano sulle conversioni a Cristo, nate dalla loro predicazione in più regioni dell’Asia Minore, e raccontano come Dio per mezzo loro avesse aperto anche ai pagani la “porta della fede”. È una porta che va aperta a tutti, anche a chi sembra allergico alla fede, perché è la porta della salvezza oltre la morte e oltre le malinconie del male. Entrando per essa, ci si imbatte con la fede, e cioè con una qualità e una dimensione che tocca la razionalità dell’uomo e la rende capace di penetrare il mistero della vita e dell’esistenza. Occorre però che questo incontro-dialogo con la fede ci sia, cercato e invocato in ogni modo. Leggo in un recente articolo dell’attuale Direttore dell’Ufficio catechistico nazionale circa l’esigenza che, accanto alla nuova evangelizzazione come “annuncio”, ci sia anche “catechesi e formazione”. Una prima suggestione operativa derivata dagli Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano: “Si tratta di dare vita, nelle comunità cristiane, a veri e propri laboratori della fede, perché ciascuno possa, nell’ottica della propria esperienza e sensibilità spirituale, maturare quella fede adulta in vista della testimonianza cristiana”. E questo è ancor più vero se consideriamo come caratteristica della prima comunità cristiana le quattro “perseveranze”: la perseveranza unanime (perdurantes unanimiter) sia nella didachè che nella koinonìa, nella frazione del pane e nelle preghiere. Possono aversi oggi queste perseveranze senza una formazione paziente e lungimirante? E chi fa oggi questa formazione: con quali iniziative? Con quali metodi? Con quali verifiche? Con quali risultati? Occorrono seri laboratori della fede, quindi, anche oggi, non bastando prediche pur interessanti, o iniziative di preghiere, o eventi più o meno occasionali. È necessario allora dar vita a laboratori permanenti della fede, che siano caratterizzati da continuità, da approfondimenti, da verifiche, operando con piccoli gruppi, in cui far spazio a testimonianze e a dialoghi. Non credo di andare fuori tema se dico che questi auspicati “laboratori della fede” si rinvengono oggi nelle attuali comunità ecclesiali di varia denominazione, che consentono alla Chiesa di “fare un grande passo in avanti nella sua evangelizzazione” (Christifideles laici nn. 34-35).
Diceva già il beato Giovanni Paolo II nella Redemptoris missio del dicembre 1990, costatando il grande sviluppo dei movimenti ecclesiali, dotati di dinamismo missionario: “Quando s’inseriscono con umiltà nella vita delle Chiese locali, e sono accolti cordialmente da vescovi e sacerdoti nelle strutture diocesane e parrocchiali, i movimenti rappresentano un vero dono di Dio per la nuova evangelizzazione e per l’attività missionaria propriamente detta. Raccomando, quindi, di diffonderli e di avvalersene per ridare vigore, soprattutto per i giovani, alla vita cristiana e all’evangelizzazione, in una visione pluralistica dei modi di associarsi e di esprimersi”. Le stesse cose disse Benedetto XVI a Colonia, ai giovani e ai vescovi in occasione della Giornata mondiale della gioventù nell’agosto del 2005: “La Chiesa deve valorizzare queste realtà, e al contempo guidarle con saggezza pastorale”.