Sulla base del fascino ineguagliabile che accompagna il Verbo eterno di Dio che viene a vivere con noi, il Natale a volte ha un suo fascino particolare, legato ad un fatto particolare. Per me il Natale che più di ogni altro è segnato da questo tipo di fascino fu il Natale del 1974. Era l’anno in cui Capodarco, da Fabriano, dava vita a Gubbio, sul monte Ansciano, alla Comunità di San Girolamo nell’omonimo convento abbandonato da tre lustri dai Frati minori. Avevamo l’incoscienza di giovani pirla che hanno assaggiato il sapore forte della condivisione di vita con gli ultimi della classe, e non accetterebbero per nulla al mondo di vivere per qualcosa di meno, e vogliono riproporla, quella “condivisione del cesso”, in forme nuove e più impegnative.
Eravamo arrivati a Gubbio il 7 aprile di quel 1974, domenica della Palme: un giorno vi dirò in che stato pietoso. Ma subito si era scatenato un vero e proprio tsunami di solidarietà operativa. Giovani generosi salivano a San Girolamo e si mettevano in fila per fare da manovali ai cinque muratori che in buona parte ci forniva la Scuola edile. Testa bassa e pedalare! 9 ore di lavoro al giorno, 9. E chi accennava a lamentarsi era trattato come un malfattore. E la nostra casa cresceva a vista d’occhio. Fu un’estate epica, un campo di lavoro uno via l’altro, fitti, impegnativi, esaltanti. E un’intensa azione di sostegno da parte della città: fornai che cuociono gratis, il Comune che manda un’autobotte al giorno per bere e sciacquarsi “un pochino” in partibus infidelium, dai fruttivendoli montagne di verdura per gratinati che massaie laureate prepareranno su padellozzi grandi come piazze. “Il Natale però lo facciamo tra noi, non invitiamo nessuno!”. Già, un momento di intimità, finalmente noi 15 che qui ci viviamo. Solo noi, in una saletta messa a posto l’altroieri. E invece alle 10 e mezzo della Vigilia cominciarono ad arrivare gli amici: dieci minuti prima di mezzanotte il convento era gremito.
Dovemmo decidere di dire messa nel salone dell’ex refettorio, grande ma con gli infissi talmente scassati da garantire una temperatura di 2 o 3 gradi. Ma quando cominciammo la celebrazione, tutti stipati uno accanto all’altro come acciughe sott’olio, il freddo non si avvertì più: un eccezionale calore partecipativo ci prese tutti. Celebrai con la mensa dell’altare da campo che, pressata dalla folla, mi spingeva indietro fino a schiacciarmi contro la parete di fondo. In prima fila c’era un notissimo pazzerello del tempo, che ogni tanto emetteva risatine immotivate ma contagiose. Noi faticavamo a gradirle, quelle risatine, ma Gesù Bambino sicuramente no. Cantammo e demmo gloria a Dio con l’empito della novità, come l’avessimo scoperto appena dieci minuti prima che era Lui il Padre del Festeggiato. Alla fine della messa, Chico distribuì 25 litri di ottimo vin brulè.