Proprio così, dovremo esserci tutti, ci saremo tutti: 7 febbraio 2001, sesto anniversario del pio transito dell’arcivescovo mons. Antonio Ambrosanio, quando verrà inaugurato il suo monumento funerario in Cattedrale, con la Cappella degli arcivescovi. Lo ricordiamo ancora, sei anni fa, esposto alla venerazione del popolo, mentre la teoria interminabile dei visitatori, anzi dei figli, si appressava per l’ultimo sguardo, l’ultimo saluto. Una morte dinanzi alla quale veniva alla mente un pensiero, immaginate un po’, di Lutero: “Il nostro bene è nascosto e lo è così profondamente da essere nascosto sotto il suo contrario. Così la nostra vita è nascosta sotto la nostra morte, la forza sotto la debolezza”. Così aveva scritto nel commento alla Lettera ai Romani, tra il 1515 e il 1516, quando ancora era nella Chiesa cattolica, (solo nel 1517 affisse le famose 95 tesi sulle indulgenze alle porte della chiesa di Wittenberg). E aggiungeva: “Si diventa teologo vivendo, anzi morendo e dannandosi, non solo comprendendo, leggendo e speculando”. Mons. Ambrosanio era vissuto per tutta la vita “comprendendo, leggendo e speculando”; sua la fondazione dell’Ateneo teologico di Napoli, sue alcune opere come Frammenti eucaristici. Ma ora il Signore lo chiamava a quella esperienza di morte che avrebbe coronato ogni sua più ardita contemplazione, secondo la parola di Giovanni nella sua prima Lettera: “Carissimi, fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1 Gv 3,2). Per questo, quando il suo medico, dott. Giannetti, il 25 gennaio, si fece forza e gli rivelò con tutta sincerità l’irreversibilità della morte, chiese soltanto di essere lasciato in solitudine, come ai tempi delle sue più ardite ricerche teologiche, per prepararsi in disponibilità assoluta, in una gioia che non potremmo facilmente comprendere, alla suprema manifestazione. E così volle ricevere l’Olio degli infermi il 2 febbraio, per essere presentato al Padre da Maria e Giuseppe come il Bambino Gesù. Non lasciò un vero e proprio testamento spirituale, soltanto due brevi frasi latine dalla Scrittura: “Dilexi Ecclesiam … pro mundi vita” (“Ho amato la Chiesa … per la vita del mondo”). Uno solo è stato il suo desiderio: restare nella sua Cattedrale, la sua sposa, e qui attendere la risurrezione. Ora finalmente il suo desiderio è realtà. Mercoledì 7 febbraio, ne ricorderemo insieme la figura e lo saluteremo nella sua nuova tomba. L’arcivescovo mons. Riccardo Fontana ha diramato gli inviti e comunicato il programma: alle ore 16, nella sala Barberini del Museo diocesano (Palazzo arcivescovile) il prof. mons. Andrea Milano, ordinario di Storia del Cristianesimo nell’Università di Napoli, terrà l’attesa commemorazione, poi si scenderà nella Cattedrale dove il Vescovo di Albano, mons. Vallini, a Napoli ai tempi di mons. Ambrosanio, con l’arcivescovo mons. Fontana, presiederà la Concelebrazione eucaristica di suffragio. Al termine della celebrazione l’inaugurazione del monumento funerario. Margherita Guidacci ha scritto: “A che vale il tuo nome – scritto sopra una bara sigillata – che più non si riapre – a cui è vano bussare?”. E pienamente a ragione, quando un nome scritto su una bara o scolpito su di una lapide presumerebbe di prolungare nel tempo ciò che è decisamente stroncato. Ma quando è un nome che tu sai scritto, già e più, in cielo, tutto è diverso, perché il pensiero vola lassù e si fa quasi scala di Giacobbe su cui salgono e scendono gli angeli. Mi piace riportare qui, in italiano, il testo latino della iscrizione: “Antonio Ambrosanio, arcivescovo di Spoleto-Norcia, sognò morendo questa cappella, per sé e i suoi fratelli nell’episcopato spoletino, e ad essa volle contribuire nella sua munificenza, in modo che, uniti nell’amore della stessa Chiesa, attendessero nello stesso monumento la beata risurrezione”. Nella Cappella infatti, insieme a mons. Ambrosanio, sono stati traslati i tre arcivescovi che, dalla fine dell’Ottocento, sono morti a Spoleto, e cioè mons. Elvezio Mariano Pagliari, il vescovo della Sacra Famiglia (1900), mons. Pietro Pacifici (1931), il vescovo del rigore antimodernista, mons. Pietro Tagliapietra (1933), il vescovo della parola di fuoco. Sostando e pregando nella Cappella, potremo ripensare così a gran parte della nostra storia.
Tornerà nella sua cattedrale come fu suo ultimo desiderio
Celebrazioni in suffragio di mons. Ambrosanio. Un monumento funebre a sei anni dalla morte
AUTORE:
Agostino Rossi