Mi porto le carte

Sabato 25 agosto. Ho appena celebrato la liturgia di commiato di Silvana, nella chiesa di Padule, quando incontro un amico carissimo, Michele. Michele è stato molto male: il “solito” cancro, che oggi colpisce a destra e a manca, ciecamente, senza risparmiare nessuno. Abbiamo imparato a conviverci, lo prendiamo per quello che è, ricicliamo sulle sue esigenze la nostra vita (quello che rimane della nostra vita), se lui ce ne dà il tempo, ma non lo chiamiamo più “un malaccio”.

Fu una delle ultime lezioni di don Milani ai suoi ragazzi di Barbiana: quando seppe di essere malato di cancro, convocò lassù suo fratello, il dottor Adriano, e gli chiese di spiegare ai suoi mocciosi, dal punto di vista medico, quello che gli era successo, ma gli vietò nella maniera più assoluta di chiamarlo “un malaccio”.

Oggi noi de Il Gibbo terremo la nostra lectio divina a S. Maria al Corso, sulla quinta e ultima parte di quel sesto, splendido capitolo di Giovanni, il discorso del Pane di vita, che la Chiesa ci ha fatto leggere al posto del Vangelo di Marco fra la XVII e la XXI domenica del tempo ordinario.

Dio mio, che splendore quest’ultima, appassionata catechesi del vecchissimo quarto Evangelista, centellinata e degustata sotto la guida di Fernando Armellini, che legge la Parola con il rigore dello scienziato asettico e l’affetto del discepolo ubriaco del messaggio di Cristo!

Lo incontro sulla porta della sagrestia, Michele, lo abbraccio mentre indosso ancora i paramenti liturgici, e lui mi fissa coi suoi occhi chiari e profondi, e mi fa: “Ma… sei proprio sicuro di tutto quello che hai detto nell’omelia?”. Silenzio. “No. Non sono sicuro. Non so bene di che cosa parlo, non so in che consiste questa benedetta vita eterna, e come posso esserne sicuro?”. Silenzio. “Ma allora…?”. Silenzio. “Ma allora c’è Lui che è assolutamente sicuro di quello che dice” e con la testa accenno al tabernacolo: “Lui viene da lì”.

Silenzio. “Allora posso starmene tranquillo ad aspettare quello che verrà”. Silenzio. “Certo, ma solo dopo che avrai combattuto con le unghia e con i denti la belva che ti ha aggredito, anche a nome di quel Gesù che, dei suoi morsi bestiali, ne soffre quanto te”.

Sorride, Michele. “Allora quando tocca a me, mi porto le carte”.

Sì, Michele, ci conto anche io. Le carte con le quali in canonica giocavamo a bestia sotto Natale, con Giancarlo, Ettorino e Ciro. No quella volta Ciro non c’era, era in Australia, lo sostituiva non ricordo chi; e noi gli telefonammo, quando qui erano le 23 e laggiù l’alba; lo tirammo giù dal letto. “Ciro, ci ho il fante e il sette: che dici, ci vado?!”.

Dal profondo dell’emisfero meridionale partì un “vaffa” che in un millesimo di nanosecondo perforò l’Equatore e piombò sulla casa canonica di Padule, su di noi, con quelle carte in mano.