Frate Focu

abatjour

Laudato si’, mi Signore, per frate focu, / per lo quale ennallumini la nocte: / ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte. Già, ma da quanti anni non mi sedevo vicino al fuoco divampante, prima a distanza di sicurezza, poi vicino, sempre più vicino, a mano a mano che le fiamme superbe si abbassano e cedono il posto all’umile crepitìo della brace? Da quanti anni? Poco meno di settanta. Non conta il “focarone” acceso in fondo a via Dante, la sera del Venerdì santo, quando passano il Cristo Morto e la Madonna delle Sette Spade. Quello è un fuoco di protesta, violento, contro quei farabutti che hanno ucciso Gesù. No, io parlo di fuochi di contemplazione, che prevedono, dopo il furore delle fiamme alte che magari s’è prolungato a lungo, il tepore che irradiano intorno le braci, con il loro fragile scoppiettare, in calando.Come il focarone che a Scheggia, quando ero un bambino, e ancora era in circolo l’adrenalina della guerra finita l’altro ieri, accendevamo la sera della festa di san Giuseppe; nella piazzola di fronte alla casa di Betacchino e di Dondo; sul retro della casa parrocchiale. L’accendevamo per aiutare il padre di Gesù a liberare la sua bottega dalla segatura e dai troppi pezzi di legno inutili; e rimanevamo lì finché l’ultima brace s’era spenta. O la notte tra il 9 e il 10 dicembre, la “festa della Venuta”, del trasferimento della Santa Casa di Loreto dalla Palestina sul lido adriatico. Si diceva che in quella notte gli angeli ripetevano l’operazione: nessuno sapeva dire perché e come, certo era che bisognava accendere tanti fuochi, un po’ dappertutto, per aiutare gli angeli a non perdere la rotta. Erano tanti anni che non sedevo vicino ad un focarone di contemplazione. Ma lunedì scorso, 19 marzo 2012, festa di san Giuseppe, a notte, finalmente ho potuto farlo. Vicino al capannone della cooperativa La Saonda, nella zona industriale di Padule. Un’ora di pace incredibile. Un’ora passata a guardare il fuoco e ad avvicinarsi con la sedia al fuoco, con i miei ragazzi che sgranocchiavano noccioline, mentre il calore si attenuava. Ricordate il Ciàula di Pirandello, il povero “caruso” che, uscito di notte dal buio della miniera di zolfo… “scopre la luna”? “E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce…”.In mente mi risuonava l’ultimo canto serale degli scout: “Signor, ai tuoi piedi prostrati, per salutare il dì che muor”. Qualcuno fischiettava nel buio il Valzer delle candele, modulandolo divinamente. Non mi vergogno di dire che avevo gli occhi velati di lacrime. Angelo M. Fanucci