{"id":9155,"date":"2011-02-25T00:00:00","date_gmt":"2011-02-25T00:00:00","guid":{"rendered":"http:\/\/www.lavoce.it\/?p=9155"},"modified":"2011-02-25T00:00:00","modified_gmt":"2011-02-25T00:00:00","slug":"insegnare-o-imparare","status":"publish","type":"post","link":"https:\/\/www.lavoce.it\/insegnare-o-imparare\/","title":{"rendered":"Insegnare o imparare?"},"content":{"rendered":"
No, non intendo censurare l\u2019uso scorretto dei due verbi che vige dalla parti mie: nel vernacolo quotidiano li usiamo come se, invece che antitetici, fossero intercambiabili. \u201cAh! Tu \u2019n ce credi? \u2019N ce credi proprio? E alora te l\u2019amparo io du sta Barognola!!\u201d. N.B. Vi si sconsiglia vivamente, quando doveste trovarvi in un caso del genere, di intervenire per correggere: rischiereste di fare la figura petulante della Maestrina dalla Penna Rossa nel pieno del vociare di un mercatino rionale. Alludo piuttosto al motto irriverente e sacrosanto: \u201cChi le cose le sa, le studia; chi non le sa, le insegna\u201d. \u00c8 vero. \u00c8 stato vero anche per me. Quando, nel 1969, cominciai a insegnare Letteratura e lingua italiana e Letteratura e lingua latina al liceo classico \u201cMazzatinti\u201d ero un ignorante, a parte la lingua latina, nella quale mi ero dovuto esercitare a lungo, stendendo settimanalmente nella lingua di Cicerone gli appunti delle lezioni dei principali docenti (Teologia dogmatica e Teologia morale): parlavano latino, gli illustri docenti, a noi ragazzi di mille lingue diverse; ma un latino che di illustre non aveva nulla; era sciatto ma comprensibile, maccheronico ma senza formaggio. A parte quest\u2019ultima appendice positiva, non sapevo nulla di nulla. Era stata la facolt\u00e0 di Lettere dell\u2019Universit\u00e0 di Perugia. Frequentavo assiduamente. Il primo esame lo detti con Giugni (Pedagogia) e lo preparai come avevo immaginato che dovesse svolgersi: un colloquio vivace e articolato, quasi un dibattito, a dar prova dell\u2019efficienza delle mie meningi. Niente. Giugni volle sapere la sua pappetta, con l\u2019olio e il sale giusti, per ordine, in fila, non con parole mie ma solo con le uniche parole autorizzate: quelle sue. Presi 22. L\u2019esame successivo, Geografia, con Albertini, lo impostai quasi come quello di Pedagogia: presi 27. Allora tornai a studiare a memoria come facevo in II elementare con la maestra Lucrezia Romeggini Bartoli: presi diciotto 30 tutti in fila. E non imparai niente di niente. Fu facendo scuola che imparai che Dante saliva dall\u2019inferno al paradiso portandosi dentro il fuoco vero, quello della passione politica, che lo \u201carrostava\u201d dentro. E che Boccaccio non ha nulla di boccaccesco. E che nel Machiavelli, che, in polemica con Donna Fortuna, s\u2019ingaglioffiva nell\u2019amaro far niente di San Casciano, e in Galileo che continuava a scuotere il suo capoccione per sottolineare (sottovoce, please!) che \u201ceppur si muove\u201d, nasceva la cultura delle autonomie. E che Leopardi non \u00e8 stato quel \u201cfregno buffo\u201d che nella poesia ha trovato tutto quello che la vita gli aveva negato. E che Manzoni non era affatto, come in quegli anni denunciava, tra la giusta indifferenza delle persone serie, quel poveraccio di Moravia: \u201cUn romanziere a tesi\u201d, Manzoni. Su lui bisogna ritornarci. <\/p>\n","protected":false},"excerpt":{"rendered":"
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