Un sogno vi ho raccontato, un sogno. Ma tutti i sogni \u201cnell\u2019alba svaniscon perch\u00e9 \/ quando tramonta, la luna li porta con s\u00e9\u201d: cos\u00ec cantava Modugno. Il mio sogno invece, quello che vi ho raccontato, per svanire non ha atteso il tramonto della luna: s\u2019\u00e8 interrotto al mio risveglio. Erano le 2.30. Nel mio arruffatissimo studiolo ho cercato di pensare a che senso avesse quello che avevo sognato. E per farlo ho poggiato il gomito sul piano della scrivania, come Lucia sul bordo della barca, prima dell\u2019\u201cAddio monti sorgenti…\u201d; poi ho poggiato la testa sulla mano aperta verso l\u2019alto; poi mi sono addormentato di nuovo. E di nuovo ho sognato. Sogno numero due. Ho sognato una Casa della Carit\u00e0 divenuta nel tempo il cuore pulsante della vita cittadina nella mia Gubbio. Non alla periferia, ma immediatamente a ridosso del centro storico. In via Perugina, poco sotto il \u201cBeniamino Ubaldi\u201d. Il Comune ha deliberato una variante al Piano regolatore, la Regione ha dato il nulla osta, la Provincia ha mandato gi\u00f9 il rospo (ingoiare i rospi sar\u00e0 una delle ultime competenze che le rimarranno). Grandioso. Al Centro una comunit\u00e0 di accoglienza, quella nella quale io avr\u00f2 felicemente vissuto dal 1971 al giorno del mio primo e ultimo viaggio in Mercedes, quello coi piedi davanti. Una struttura che, inserita com\u2019\u00e8 nel sistema socio-sanitario, gode della base (economica e di personale) per assistere come si deve e per sostenere un ben saporito contorno di volontariato. Ai quattro fianchi quattro appartamenti, abitati da famiglie di cristiani comuni che si propongono gli obiettivi dei cristiani comuni, pi\u00f9 uno: fare vita di condivisione (da famiglie, non da singoli) con i soggetti deboli accolti in comunit\u00e0. Apri una porta, e loro ti catturano. Sai, oltre che di operatori essi potrebbero aver bisogno di una famiglia. Non puoi dare un sasso a chi ti chiede un pane, n\u00e9 un serpente a chi ti chiede un pesce, n\u00e9 un servizio a ore a chi ti chiede una famiglia. In basso la Caritas diocesana, i suoi uffici, i suoi magazzini; e una mensa dei poveri; e un dormitorio a cellette per terzomondiali di passaggio, e una serie di docce, pi\u00f9 un Black & Decker per facilitare il distacco di eventuali zecche tenaci. E tutt\u2019intorno una massa di volontari che vanno e vengono. No, non sono l\u00ec per confermarsi nelle loro fragili sicurezze di anime belle. Sono l\u00ec per loro, solo per loro, per quei \u201cpiccoli\u201d al cui servizio il Signore ha legato le promesse del Regno. E cos\u00ec si chiude il cerchio che si apr\u00ec nel 1965, al termine di un pellegrinaggio di disabili marchigiani a Lourdes. Il don che lo guidava diceva alle damine e i barellieri, con grande unzione: \u201cRicordate sempre la bella esperienza che avete fatto in questi giorni\u201d. Taurino, il giovane don Franco Monterubbianesi, gli strapp\u00f2 il microfono di mano e grid\u00f2: \u201cRicordatevi piuttosto di questi 1.200 handicappati, che hanno vissuto tre giorni di calore e adesso tornano nel gelo di tutti gli altri giorni dell\u2019anno\u201d. Quel grido di 47 anni fa mi ha svegliato. Ed \u00e8 finito anche il sogno numero due.<\/p>\n","protected":false},"excerpt":{"rendered":"
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