Di fatti di cronaca nera e di tragedie collettive sono pieni i mezzi d’informazione. Ne abbiamoi pieni gli occhi e le orecchie, e ne rimaniamo sempre disgustati e sconvolti. Anche se non ci toccano da vicino, ci danno un senso di tristezza e angoscia, ci deprimono l’anima. In due giorni, martedì e mercoledì scorsi, due fatti sono accaduti proprio qui in Umbria in due tranquilli paesi che meriterebbero ben altra notorietà. Un giovane, 28 anni, uccide la sua fidanzata, 26 anni, e poi si uccide; una madre accoltella il figlio di undici anni. Ognuno reagisce a suo modo e fa le valutazioni che crede. Ma un particolare mi ha colpito nella prima tragica vicenda, come riportato dai giornali. Il giovane, prima di compiere quel tragico atto, invia un sms agli amici in cui dice: “Non vi dimenticherò”. Si resta sbalorditi. Certo, è un pensiero che esalta l’amicizia che pensa debba e possa durare oltre la morte. Oltre la morte. Come se tutto continuasse come prima e che ciò potrebbe dipendere da chi muore. Come è possibile che non ci si renda conto di cosa significa la morte e il morire? Probabilmente ci troviamo in una situazione in cui i fatti della vita per alcuni sembrano assimilabili a quelli di un film: un evento tra gli altri, semplice, immediato, una soluzione alla portata per risolvere un problema, affermare un diritto.
Nei casi di uccisione di una donna si dà l’affermazione di una volontà di potenza – violenza, di possesso, di vendetta per un sopruso o un rifiuto, il gesto del folle amore perduto per cui non rimane altra ragione di esistenza. Diverso il gesto di una madre che colpisce il figlio disabile per pura disperazione e crollo del sistema nervoso. Una riflessione tra le mille che si possono fare, e che molti si fanno, soprattutto gli educatori, si svolge attorno alla comunicazione sociale, compresi i social network. Sembra di dover dire che la moltiplicazione delle informazioni tende a rendere tutto più a portata di mano, fruibile immediatamente, ponendo le cose una accanto all’altra, quasi fossero tutte dello stesso peso e valore. Anche la morte si introduce come uno strumento di cui ci si può servire per qualche ragione. Chi ne soffre – di questa stagione di diffusa omologazione e superficializzazione di tutto ciò che capita sotto gli occhi – è la percezione dello spessore delle cose, del loro senso profondo. Si sfumano e persino si distruggono le differenze, si perdono criteri di valutazione delle azioni umane, e perfino il senso del bene e del male, della vita e della morte.
Si è così presi dalla molteplicità, velocità e semplicità delle informazioni, dalla loro digitalità e facilità, che per molti ne risulta una perdita di contatto con la realtà e la sua concretezza. Non è l’accecamento generalizzato come fu provocato dalle ideologie del Novecento e favorito dai regimi politici dominanti, ma quella “miopizzazione” (diffusione della miopia) per cui tutto è sfocato, generico, annebbiato, finché non emerga la coscienza con la sua luce. Questa purtroppo affiora a galla quando la tragedia è consumata e la morte ha squarciato il “velo di Maya” che nasconde la verità delle cose di cui trattano i filosofi. Da un punto di vista cristiano – ricordiamo – la morte è la nemica indistruttibile dell’umanità che solo il Crocifisso ha vinto con la sua Risurrezione.