Nel 1911, Giovanni Pascoli scrisse in latino un Inno a Roma. L’anno non era casuale: ricorreva il 50° anniversario dell’Unità d’Italia, il primo grande anniversario, per così dire. Pascoli riassume in modo coltissimo e personale la storia della Città eterna e della nazione, e tra i suoi valori fondanti inserisce un brano che vale la pena riportare.
Lo stesso Pascoli ha tradotto l’inno in italiano, ma in un linguaggio così aulico che… è più semplice tradurre pedissequamente dal latino. “Ti fondano [Roma] profughi portati dal vasto mare, e tu ti sforzi (certas) di raccogliere i profughi sulla tua grande nave.
Tu sei fin dall’inizio un santo luogo di asilo (sanctum… limen asyli) per i popoli esuli; tu sei il mondo a cui le genti hanno affidato i semi, le zolle e tutte le cose della loro patria di origine, e le realtà sacre e le proprie divinità familiari (sacra suosque crediderunt manes)”. La traduzione italiana di Pascoli, anzi, rincara la dose: “… i profughi tu sempre prendesti a bordo della tua gran nave”.
Con il paradosso, aggiunge, che a essere accolto con più difficoltà fu il Dio più umile, il Cristo. Altrettanto significativo, più avanti, un brano in cui Giove, furioso per essere stato detronizzato dalla nuova religione, insulta Gesù chiamandolo “profugo” e disprezzandolo perché è “povero” e “deforme” (probabilmente citando Isaia 52,14).
Le parole di Giove sembrano riecheggiare volutamente le arringhe di autodifesa di Satana nei poemi inglesi di John Milton. Pascoli è stato senza ombra di dubbio tra i padri letterari della nazione, insieme ai vari Leopardi, Manzoni, De Sanctis. Quando morì, stava lavorando a un grande poema sugli eventi e i valori dell’Italia unita, altro che i soliti “rondinini”. Per riscoprire le radici giuridiche, culturali, spirituali dell’Italia, forse sono più affidabili autori come Pascoli rispetto ai tweet che vanno di moda oggi.
Dario Rivarossa