Una legge nuova per un popolo nuovo

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Oscar Battaglia IV Domenica del tempo ordinario - anno A

L’ebreo Matteo pensa all’Esodo mentre ci racconta il Discorso di Gesù sulla montagna. L’itinerario che riproduce va dal mare alla montagna: sulla riva del mare (lago) ha convocato la sua prima comunità di seguaci, sul monte dona lo statuto a questa suo popolo nuovo. Nello sfondo c’è il confronto con il monte Sinai. Ce lo dice il racconto parallelo di Luca, che parla di Gesù che scende dal monte “in un luogo pianeggiante” (Lc 6,17). L’evangelista, che scrive per i pagani convertiti, non è interessato a questa reminiscenza biblica. A Matteo, che scrive per gli ebrei convertiti, interessano i richiami biblici e scrive che Gesù “salì sul monte”.

L’indicazione è più teologica che topografica, perché vuole stabilire un confronto più diretto con il Sinai, dove Dio donò la sua legge a Mosè e al popolo in cammino verso la terra promessa. A quel tempo “ci furono tuoni, lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di tromba. Il monte era tutto fumante, perché su di esso era sceso Dio nel fuoco”; fu uno spettacolo terrificante per il popolo in attesa (Es 19,16-18). Sul monte delle Beatitudini c’è invece un clima di serenità e di gioia quando Gesù inizia a parlare. Anche il panorama del lago e della campagna ben coltivata contrasta con il luogo aspro e arido del deserto sinaitico. Qui la nuova legge di Dio è introdotta da un canto di gioia e di felicità, le beatitudini, perché ha al centro l’amore, non la paura.

La folla che attornia Gesù è disposta in due cerchi concentrici: nel primo ci sono i discepoli, quelli appena chiamati e quelli da lori rappresentati, nel secondo cerchio c’è la gente comune. Il discorso riguarda tutti i credenti, è destinato a tutti, non c’è nessuna discriminazione elitaria. Esso inizia con otto beatitudini come una cantilena gioiosa facile da ricordare. Il termine “beati” traduce il vocabolo ebraico ashrej, indeclinabile, una specie di esclamazione o incitamento. Difficile tradurlo in italiano: di solito è reso con “beati” e indica un annuncio di felicità. E come se dicesse: se volete essere felici, siate quello che vi dico. La felicità sta nella piena realizzazione di se stessi, nella soddisfazione di chi si sente al suo posto e ha potuto sviluppare in pienezza le sue capacità e le sue aspirazioni.

Gesù indica dunque la strada delle felicità in questo mondo e nell’altro in quelle otto situazioni che descrive. È interessante anche la suggestione indicata da A. Chouraqui, un intellettuale ebreo, accademico di Francia, che suggerisce di tradurre il vocabolo come un incoraggiamento: “In marcia, voi poveri”, cioè: coraggio, alzate la testa e mettetevi in cammino, consapevoli della vostra dignità di figli di Dio; non vi fate bloccare dalla mentalità di un mondo che vi vuole succubi e vi squalifica e vi disprezza. Dunque le beatitudini sono una scelta e un impegno consapevoli sulla strada della volontà di Dio, che valuta le persone con un metro diverso da quello umano corrente. A guardar bene, le beatitudini sono una specie di ritratto biografico di Gesù, lo specchio del suo essere e del suo agire.

Ancora una volta egli si pone come modello del suo stesso insegnamento: fece e poi disse. Descrivono la sua povertà iniziata a Betlemme, le sue difficoltà, la sua mitezza, la sua fame di giustizia, la sua misericordia, la sua purezza di cuore, il suo sforzo per costruire la pace, la sua persecuzione fino alla morte violenta abbracciata per amore. Egli propone con gioia e serenità, senza vittimismi, un capovolgimento della mentalità e dei giudizi del mondo. Certo, una strada in salita, ma niente affatto impossibile, percorsa con serenità e pace, a volte cantando. È la strada sulla quale cammina ogni giorno la maggioranza dell’umanità, non la strada spensierata e orgogliosa di una minoranza ricca che si ritiene fortunata e insegue invano la felicità ad ogni costo.

Le otto beatitudini passano in rassegna le situazioni più significative della vita e dicono che questa è la strada ad otto corsie che aiuta il cristiano a realizzarsi pienamente. La prima dichiara beati i “poveri in spirito”. È quella che le riassume tutte, perché al fondo delle altre c’è l’umiltà e il distacco da ogni interesse egoistico, la disponibilità a servire, piuttosto che ad essere serviti, la pazienza di chi nulla pretende e tutto dona. Perciò Matteo specifica la beatitudine della povertà con l’aggiunta “in spirito”, che non intende svalutare la povertà materiale, che costituisce la base della spiritualizzazione della povertà. Egli vuole dire che non basta essere materialmente poveri per esser felici. Ci sono tanti poveri nel mondo avviliti e chiusi in se stessi, arrabbiati e intenti a contendersi quel poco che riescono ad avere, egoisti fino allo spasimo.

La vera povertà è distacco da ogni tipo di ricchezza considerata come ideale unico di vita, è generosità e semplicità, è umiltà fiduciosa simile a quella di un bambino, che Gesù indica come ideale per entrare nel regno di Dio (Mt 18,2-4), è ambizione a servire, non a comandare. L’afflizione non è solo il pianto originato da un dolore personale, è accettazione paziente delle difficoltà e delle malattie, è solidarietà attiva con chi soffre, è pentimento e dolore per i propri peccati. La mitezza non è la virtù dei paciocconi, ma dei non violenti sempre disarmati, quelli che non rispondono al male con il male, ma con il bene, che hanno il coraggio dell’amore che sa capire e perdonare. Coloro che hanno fame e sete della giustizia sono i cercatori appassionati della volontà di Dio nella via della santità, coloro che combattono efficacemente per la promozione di tutti i diritti umani violati, che hanno a cuore il bene comune.

I misericordiosi sono quelli che aiutano chi vive in difficoltà con vera partecipazione umana, che sanno perdonare come sa fare Dio, che non coltivano odio, rancore, vendetta nel cuore. Coloro che imitano Dio misericordioso senza discriminazione tra buoni e cattivi, tra connazionali e stranieri, tra credenti e non credenti. I puri di cuore sono quelli che praticano l’onestà e la rettitudine con se stessi, con Dio e con il prossimo, le persone semplici e sincere che aborriscono l’ipocrisia. Gli operatori di pace sono i tessitori di armonia, di concordia e di amore tra gli uomini a livello familiare, sociale e internazionale. Essi cercano innanzi tutto la comunione con Dio, vera fonte della pace, perché solo chi vive in pace con Dio e con se stesso può costruire pace fra gli uomini.

Sono gli annunciatori del Vangelo della pace, come riconciliazione e unità di tutto il genere umano. Finalmente, i perseguitati per la giustizia sono tutti martiri per la fede e per il bene degli uomini. Sono coloro che compiono “ciò che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo Corpo che è la Chiesa” (Col 1,24). L’amplificazione che segue applica questa beatitudine agli insultati, ai perseguitati e ai calunniati ingiustamente. Ma la beatitudine abbraccia anche i martiri della lotta contro la corruzione, l’oppressione sociale e politica, l’ingiustizia umana. Dio non dimentica nessuno: valorizza il contributo, anche piccolo, di ciascuno.

AUTORE: Oscar Battaglia