di Daris Giancarlini
La vendita della sede storica di un partito come simbolo di un cambiamento d’epoca?
È soltanto uno dei significati che sono stati dati all’annuncio che il Pd dell’Umbria ha messo sul mercato, per ‘asfissia’ finanziaria delle proprie casse, il palazzo di piazza della Repubblica a Perugia, che nei decenni del dopoguerra ha via via ospitato le dirigenze del Pci, del Pds, poi Ds e infine, appunto, Partito democratico. “Con il Pci non sarebbe successo”, hanno osservato coloro che guardano alla versione moderna dell’antico partito egemone dell’Umbria come a una deriva poco rispondente ai valori originali, e mal gestita da un Dirigenza attuale ritenuta non all’altezza, e non solo a livello regionale. Ma non è certo rievocando i (bei?) tempi che furono che si capiscono quelli attuali. La vera domanda che ogni buon politico o amministratore del presente si dovrebbe porre, a stare alla essenza primaria della politica, non è se si possano conservare le stanze e i mattoni, ma se la politica stessa riesca a incidere positivamente sulle esistenze della maggior parte possibile delle persone. Ci sono studi e ricerche realizzate da sociologi di livello che certificano all’unisono una distanza quasi incolmabile tra amministratori e amministrati, e che dipingono gli eletti come una casta che, chiusa in una torre d’avorio, ha come primo (e per molti, unico) obiettivo quello di consolidare i propri privilegi. Fuori da questa ‘torre’, intanto, le famiglie, i giovani, gli anziani, i disoccupati forse neanche cercano più una risposta o una soluzione dai politici. O la cercano da quelli che – come si dice – ‘parlano alla pancia’ più che alla testa e al cuore delle persone. E allora, il problema per un partito non è perdere una sede, ma perdere il contatto con la realtà.