Scrivo mercoledì 13 marzo 2013, scrivo quando mancano pochi minuti a mezzogiorno. Con la coda dell’occhio guardo il televisore, sul quale è apparsa da poco la seconda fumata nera del comignolo della Cappella Sistina. Scrivo per esprimere un rammarico, che potrebbe sembrare irrispettoso sullo sfondo del grande travaglio del parto che la Chiesa sta vivendo, ma di rammarico autentico si tratta, perché oggi, mercoledì 13 marzo 2013, a quest’ora, pochi minuti a mezzogiorno, insieme con il “Coro della Madonna” avrei dovuto trovarmi in Vaticano, in aula Nervi, in udienza da Benedetto XVI. E invece. Invece.
Il “Coro della Madonna” è uno di due cori che a Gubbio, da secoli, durate la grande processione del Venerdì santo, cantano il Miserere, uno a ridosso del Cristo morto, l’altro a ridosso della Madonna delle sette spade. Cantano quattro note, a due voci maschili. Una bellezza austera e struggente. Cinquanta anni fa, cioè nel 1963, due dei cantori di quel coro, cioè Franco Salciarini, futuro ordinario di Grammatica latina e greca al liceo Mazzatinti, e il sottoscritto, decidemmo che era ora di ridare la dignità perduta a quel gruppo di cantori; mentre infatti l’altro gruppo, il “Coro del Cristo”, sotto la direzione di don Piero Belardi, cantava benissimo, il nostro era allo sbando. Non c’era un maestro che desse il la e facesse muovere nel senso giusto le masse sonore, non c’era una mantelletta che distinguesse i cantori, entrava chi voleva. I berci si sprecavano. Quando la processione passava in via Vantaggi, davanti all’osteria di Lolo del Montagnolo, o in via Cairoli, davanti all’osteria di Belancino, il coro dimagriva a vista d’occhio, per tornare ad ingrossarsi poco dopo, il tempo di buttare giù un paio di fojette; e il canto sapeva di vino.
Decidemmo. Decise Franco, e io gli detti una mano, per qualche anno. Convocammo un bel gruppo di ventenni di San Martino, Roberto e Luigi Carfagna, il Panìco come solista, Icci, lo Zumbetto, Giuliano di Elido che non era ancora “don”, Piero il Rosso detto lo Scioro, i fratelli Mancini, e anche noi cominciammo a fare le prove, uscendo dopo cena per la città lungo tutta la Quaresima, il martedì e il venerdì. Poi aggiungemmo altri canti polifonici: Stava Maria dolente, O capo incoronato. E altri giovani presero ad aggregarsi, altri uomini, quotidiane voci robuste. A volta, durante le prove, ci capitò di lasciarci distanziare dal coro di un qualche centinaio di metri, per ascoltarne il canto da lontano, e un brivido ci corse nella schiena.
Nell’aula Nervi, a quest’ora, il Papa avrebbe commentato un versetto del Miserere, e subito dopo noi, senza muoverci dai nostri posti, lo avremmo cantato. Sarebbe stata la ricompensa più bella, non tanto per noi, quanto per Franco Salciarini e i suoi 50 anni di dedizione assoluta a questa splendida tradizione e, prima ancora, a Maria dolente e a quel suo Figlio dolce e straziato.