“Vedi quella porta? Li vedo già lì al mattino, ragazzi e ragazze anche di tredici, quindici anni. Si preparano la cartina per farsi la canna, e vedo le loro facce che cambiano…”. L’arcivescovo mons. Gualtiero Bassetti dalla finestra del suo studio indica la porta della sala della Vaccara. “Vorrei essere un don Benzi per scendere giù e parlare con loro, ma non lo sono, non saprei che fare! Ma mi chiedo se non abbiano anche quei ragazzi una famiglia, degli insegnanti, degli educatori…”.
Impossibile chiudere gli occhi di fronte alla vista di una generazione che si brucia la vita nella droga o nell’alcol. A loro, ai giovani, quelli della piazza e quelli che ha incontrato nelle parrocchie e negli oratori, nell’università e nei luoghi di lavoro, mons. Bassetti ha appena scritto una Lettera, che ora viene distribuita in diocesi (vedi il testo a pag. 15). Sarà il suo modo di abbracciarli tutti. Il vescovado di Perugia, con le finestre spalancate sulla piazza, cuore della città, non concede illusioni ai vescovi che vi abitano, fin da subito caricati dei problemi che sono quelli della vita quotidiana: lavoro che non c’è, famiglie che si dividono, povertà che aumentano, giovani che si perdono e così via.
Ad un anno, il 16 luglio, dalla sua nomina alla guida della diocesi di Perugia – Città della Pieve mons. Bassetti traccia un primo bilancio della Chiesa che gli è stata affidata dal Papa, e che lui deve condurre sulle strade del Vangelo per poter, insieme, rispondere alle domande e alle speranze dei figli di questa terra e di coloro che qui hanno trovato una seconda casa. Rispetto alle attese che mons. Bassetti aveva “maturato nel cuore nei mesi di preparazione all’ingresso” avvenuto poi il 4 ottobre, il bilancio è positivo avendo trovato “una Chiesa viva, aperta, accogliente e missionaria”. Certo, aggiunge, non una Chiesa perfetta, ma “una Chiesa che ha fatto un buon cammino” con il suo predecessore mons. Giuseppe Chiaretti. Cosa vuol dire “viva”? “Il fatto che abbiamo 15 vocazioni in seminario indica che non è una Chiesa sterile ma viva. La maggior parte sono giovani delle parrocchie di Perugia, ma anche quelli che non sono di Perugia hanno maturato qui la loro vocazione”. Aperta e accogliente. Perché? “Mi pare che sia la fisionomia stessa di questa Chiesa, con 40.000 studenti e con tanti stranieri. Perugia è la diocesi che in proporzione ha più stranieri di ogni terra e nazionalità. La loro presenza è un’occasione di grazia che il Signore ci dà di essere aperti, accoglienti”. E poi missionaria…“Sì, perché ha suoi missionari fidei donum, suoi missionari in Malawi, è aperta alla realtà del Kosovo, e poi le parrocchie hanno tutte rapporti con le missioni, con grande generosità da parte della gente. Al tempo stesso, con queste dinamiche ed aperture che mi danno gioia e che ci danno l’opportunità di lavorare, Perugia – come tutte le nostre Chiese in Italia e in Europa – è estremamente bisognosa di portare il Vangelo alle donne e agli uomini di oggi e particolarmente alle nuove generazioni”. Il grande tema della nuova evangelizzazione. Anche lei ritiene che sia necessaria nella sua diocesi?“Nuova evangelizzazione non vuol dire nuovo Vangelo ma nuove forme di annuncio che siano adatte alla mentalità e alla cultura di oggi. Per esempio, queste sere che sono ‘costretto’ a sentire i concerti di Umbria Jazz, ho sentito messaggi, anche attraverso la musica, che veramente potevano essere motivo di approfondimento. La nostra deve essere una Chiesa molto attenta: deve evitare giudizi aprioristici perché non tutto quello che ci propone la modernità o il post-moderno è negativo, ma ha aspetti su cui possiamo agganciarci per l’annuncio del Vangelo, e dobbiamo avere l’intelligenza e la sapienza di saperli cogliere”. Lei ha incontrato il clero e gli operatori delle zone pastorali almeno due volte. Come ha trovato i suoi preti?“Ho trovato un clero di età media molto elevata, ben preparato, attento, anche quello anziano. Un clero che ha un suo stile, una ‘peruginità’ marcata, frutto anche di un’educazione e di una formazione per molti di loro maturata all’interno del Seminario regionale, che è un buon seminario. I più anziani vorrebbero essere aiutati ad affrontare le nuove situazioni, e devo dire che la recente nomina del vicario, scelto anche sulla base delle loro indicazioni, va in questa direzione. Nell’insieme ho visto nei preti anche il desiderio di seguire le linee diocesane del Sinodo sui vari temi: la famiglia, l’evangelizzazione, la missionarietà”. Le vocazioni sono sufficienti per il ricambio generazionale? “Questo è un aspetto che mi preoccupa un po’. Per una diocesi che ha 300 mila abitanti, avere soltanto 12 preti ordinati negli ultimi dieci anni è preoccupante. Per le sfide che dobbiamo affrontare ci sarebbe bisogno di forze nuove, anche numericamente più consisenti. Mi preoccupo dei preti giovani, che vedo sovraccarichi di lavoro perché sono pochi e devono correre dovunque correndo poi il rischio di entrare in apnea. Il prete ha bisogno di alimentare la vita nello spirito, di pregare, studiare, riflettere, approfondire e anche risposarsi”. Come ha trovato il laicato in questa diocesi? “Credo che dobbiamo fare un grande cammino di formazione del laicato. Ci sono molte realtà di movimenti e associazioni che fanno la loro apprezzabile parte nella formazione delle famiglie, degli adulti e anche dei ragazzi, però i movimenti sono rami di un albero che è la diocesi, quindi la diocesi stessa dalle sue radici ecclesiali deve essere in grado di portare linfa a tutti, e aiutare tutti a maturare un laicato che sia idoneo alle sfide che ci troviamo ad affrontare”. Il rapporto tra parrocchie e movimenti non sempre è sereno. Come si può conciliare? “È importante capire che i movimenti accentuano un carisma, ma il carisma della comunione ce l’ha soltanto il vescovo per la diocesi, il parroco per la parrocchia. Il vescovo non deve essere la sintesi di tutti i carismi, la persona che assomma tutto in sé, ma deve aiutare tutti i carismi che ci sono a far sintesi e comunione. Il vescovo è il fulcro della comunione. In questo senso, è necessario che le parrocchie e il vescovo facciano la loro parte, in una visione positiva dei movimenti che è quella riproposta in tutti i documenti della Cei ma soprattutto nella Pastores dabo vobis di Giovanni Paolo II”. E le parrocchie? “I rami e i frutti sono tutti attaccati al tronco ed è il tronco che porta la linfa vitale, altrimenti si secca tutto. È vero che solo la diocesi è di istituzione divina, ma la parrocchia resta una istituzione ecclesiastica oggi insopprimibile. Sono stato otto giorni in Francia con i nostri seminaristi, dove abbiamo potuto vedere il disastro che è seguito alla scelta della Chiesa francese di relativizzare le parrocchie per puntare su una – rispettabilissima – evangelizzazione capillare in piccoli gruppi, perdendo il radicamento che aveva sul territorio”. Molti laici svolgono un servizio ecclesiale, ma il laicato pare latitante sul fronte pubblico, sociale… “Ministeri e servizi ecclesiali sono tutte cose buone, ma il laico deve essere impegnato nel mondo del lavoro, nella scuola come nella fabbrica, ovvero nell’ambiente in cui vive. Il Concilio Vaticano II ci ricorda che il laico deve santificare le realtà terrene. Meno si clericalizza, meglio è: per la sua missione di evangelizzazione ha già la consacrazione del suo battesimo. La Chiesa nel suo insieme è questa realtà completa di doni e di carismi, che tutti insieme formano questo armonico Corpo di Cristo che è la Chiesa”. Ha già fatto le prime nomine. Ne sta preparando altre? “Voglio completare gli organismi diocesani che sono mancanti, cominciando proprio dalla costituzione del Consiglio pastorale diocesano. È il vertice degli organismi collegiali, sia in quanto riflette la composizione tripartita del popolo di Dio in sacerdoti religiosi e laici, sia come motore della diocesi nel quale prendere le opportune decisioni su tutti i campi della pastorale, che saranno poi messe ad esecuzione dagli organismi e dagli uffici diocesani, ciascuno per la propria competenza. Ci sono poi altre nomine da fare, ma questa del Consiglio pastorale diocesano è importante per un coordinamento che sia segno di comunione”.
Prossimi appuntamenti: a Lourdes con il Cvs e a Santiago con i giovani“Ecco perché amo i pellegrinaggi” Mons. Bassetti parteciperà al pellegrinaggio del Centro volontari della sofferenza a Lourdes, e raggiungerà i giovani sulla via di Santiago de Compostela. Ad inizio mese è andato in Francia con i seminaristi; pochi mesi fa si è recato anche in Terra Santa, una meta che gli sta molto a cuore. “Nella storia bimillenaria della Chiesa il pellegrinaggio è sempre stato un momento privilegiato dello spirito, della carità” afferma mons. Bassetti, nonostante oggi si corra il rischio di perdere il senso più profondo e di ridurlo a turismo. Con la sua partecipazione ai pellegrinaggi vorrebbe far capire che “il pellegrinaggio è un cammino spirituale, è un fare sosta”, importante perché, ricordava san Gregorio di Nissa, “se non ti fermi non puoi camminare” intendendo che “soltanto chi fa sosta, chi rientra in se stesso si rifornisce spiritualmente. Poi – aggiunge – è chiaro che fanno crescere anche valori ascetici come l’esercizio della carità, l’accettare l’altro, il sacrificio”.
Partecipando al pellegrinaggio a Santiago e a Lourdes mons. Bassetti cercherà di “dare un input in questo senso”, e fa l’esempio di quando conduce un pellegrinaggio in Terra Santa. “Insisto molto nel dire che i luoghi sono significativi ma possono diventare una realtà solo archeologica se viene a mancare una Chiesa viva che li regge, perché il Cristo risorto continua la sua vita nella comunità cristiana, non tanto perché lì era la sua tomba”. Per questo motivo nei suoi pellegrinaggi si preoccupa proprio “di una visita alle Chiese locali, come suggerisce il Patriarca latino di Gerusalemme”.