“Vedo tanti laici, ma non scorgo vocazioni laicali”. Questa affermazione icastica suggerita da don Giulio Martelli, un “pastore dal cuore integro” recentemente scomparso, mi è tornata alla mente in occasione delle esequie del sen. Luciano Radi – colto dal sonno della morte nella solennità dell’Ascensione – celebrate nella festa nazionale della Repubblica italiana. Ho avuto modo di conoscere il sen. Radi negli ultimi anni della sua vita, durante i quali si è preparato a varcare il muro di cinta della morte sostenuto dalla fede pasquale, che “trasforma la tristezza della morte nell’ansia di un viaggio verso l’Amore”.
Davanti alle spoglie mortali di una persona che ha assicurato, per lunghi anni, una presenza cristiana nell’impegno politico, mi sono chiesto: qual è l’eredità che Luciano lascia a quanti sono chiamati a governare la comunità civile cercando il bene comune? Nel rispondere a questo interrogativo mi sono tornate alla mente alcune riflessioni di Alfredo Carlo Moro, fratello del grande statista Aldo ucciso dagli uomini delle Brigate rosse nella primavera del 1978.
“Serve una politica che non si appiattisca nel piccolo orizzonte elettorale ma cerchi il bene comune: una politica basata sull’attenzione verso il nuovo che avanza e le esigenze più profonde dell’uomo e sull’ascolto delle proposte giuste suggerite da chiunque. Serve una politica che tende a tradurre, per quanto possibile, i grandi valori anche del messaggio cristiano nella vita sociale, ma mantenendo la distinzione tra fede e storia, e tra messaggio di salvezza e autonomia delle realtà terrene: una politica rispettosa della Chiesa ma anche dello Stato, e che non cerca di strumentalizzare la religione mercanteggiando privilegi in cambio di consensi. Serve una politica fatta di riflessione e approfondimento dei problemi e non sostanzialmente pubblicitaria, in cui il carisma dell’immagine è a tutto scapito del carisma delle idee e che ricorre spesso alla pubblicità ingannevole: una politica dell’incontro che si contrappone a una politica dello scontro, per cui è più significativo essere contro qualcuno che costruirsi un’identità e un programma. Serve una politica della lealtà contro una imperante politica della furbizia tutta imperniata su tatticismi e sul proclamare nei programmi una cosa, convinti di realizzarne in realtà un’altra: una politica radicata nella ricerca dei valori e nella capacità progettuale contro una politica ridotta a pragmatica gestione dell’esistente. Serve una politica della graduale tenace costruzione contro una politica dell’improvvisazione e del continuo mutamento a seconda delle convenienze del momento”.
Questo vademecum era ben noto al sen. Luciano Radi, il quale ha testimoniato che i laici cristiani non possono “giocare da Pilato”, lavarsi le mani in politica. “Vivere da laici nella Chiesa e da cristiani nel mondo”: questo ritratto, tracciato dal venerabile servo di Dio Papa Montini, è sempre stato di fronte agli occhi del sen. Radi, il quale sottoscriverebbe, senza esitazione, le parole con cui Papa Francesco osserva che “il rapporto fra la Chiesa e la politica deve essere allo stesso tempo parallelo e convergente: parallelo, perché ognuno ha la sua strada e i suoi diversi compiti; convergente soltanto nell’aiutare il popolo”.
La fede rispetta fino in fondo la laicità dello Stato: essa infatti si limita a “servire” l’ordine delle cose mondane, rispettandone l’autonomia, ma senza essere neutrale, cioè senza rinunciare alla profezia.