Matteo Cesarani è un lettore di Avvenire che il giorno dell’Epifania ha scritto al Direttore per metterlo in guardia da quelli come me; partendo dalla dolorosa constatazione di come, anche in Tv, diversi cattolici parlano dell’Islam con un fervore che non usano affatto quando parlano della propria religione, egli tira gli orecchi a quanti non intendono svegliarsi dal sogno nel quale ogni cosa è buona così com’è. Ci sono anch’io. Sissignore, io credo che la fede faccia sentire ogni cosa buona così com’è. E più ancora faccia sentire come buone le persone così come sono. Se così non fosse mi sentirei perduto. Guai se Dio non mi amasse per come sono. Guai se Dio si adontasse e mi presentasse il conto dei mille propositi che quotidianamente ho disatteso. Io credo che possiamo tranquillamente anche noi amare la cosa così com’è (e più ancora le persone così come sono), perché nella persona così com’è (e più ancora nelle persone così come sono) la fede include anche la loro tensione essenziale a trascendersi, ad andare al di là di se stesse, ad aprirsi sempre al nuovo, all’inedito, al sorprendente, al non prevedibile. All’infinito. Nelle cose e nelle persone, in maniera diversa, essere e dover essere si fronteggiano, si integrano, si richiamano, si definiscono l’uno in relazione all’altro. Vivono, come si diceva un tempo, in rapporto dialettico. Uno dei nuclei di sapienza occidentale cristianamente ispirato si condensa nei due splendidi motti che abbiamo imparato sui banchi del liceo: Sii quello che sei! e Diventa quello che sei! In apparenza le due esortazioni si escludono; in realtà solo in coppia dànno il senso autentico della vita. Nell’assenza di questa dialettica vedo la pesantezza dell’Islam. E ne provo un senso di paura. Dietro la loro visione del mondo si avverte un Dio che non è mai stato tentato di incarnarsi. E’ rimasto puro. E pesante. Gli manca quella leggerezza che solo la complicità con le nostre strutturali contraddizioni potrebbe conferirgli. Ne provo un senso di paura.