Siamo tutti cercatori di Dio, anche quando rincorriamo affannosamente mete limitate e illusorie. Sant’Agostino nelle sue Confessioni riassume così l’anelito divino che sale da ogni cuore umano: “Tu ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore non trova pace fino a quando non riposa in te”. Benedetto XVI, nel settembre scorso, ha rilanciato dal centro di Parigi questo grido di san Paolo ai cristiani di Corinto: “Fuggite l’idolatria!” (1 Cor 10,14). “Questo invito – diceva – resta valido anche oggi. Il mondo contemporaneo ha imitato, magari a sua insaputa, i pagani dell’antichità distogliendo l’uomo dal suo vero fine, dalla felicità di vivere eternamente con Dio”. Chi ha smesso di cercare Dio si ritrova con un pugno di mosche in mano, senza presente e senza futuro. Ma per trovare Dio è necessario l’annuncio che incuriosisce e scuote il nostro torpore intellettuale.
I troppi messaggi commerciali che ci piovono addosso ci frastornano e ci disorientano. Solo se facciamo un po’ di silenzio attorno e dentro riusciamo a distinguere il richiamo che sale dal profondo di noi stessi e a percepire quella divina calamita di cui parlava Gesù: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato. Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me” (Gv 6,44s). Il Vangelo di Giovanni che abbiamo letto oggi ci presenta concretamente il tema della ricerca di Gesù. Si apre con un annuncio quasi lapidario del Battista ai suoi discepoli: “Ecco l’agnello di Dio”. Il giorno prima lo aveva gridato alle folle che accorrevano al suo battesimo in forma più completa, dicendo: “Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo”(1,29), ma nessuno si era incuriosito e si era mosso. Il suo annuncio era caduto nel vuoto. Eppure conteneva una novità assoluta sul Messia tanto atteso. Diceva che Gesù si sarebbe addossato l’enorme cumulo dei peccati del mondo per cancellarli con la sua morte espiatrice.
Era l’agnello pasquale, simbolo della liberazione dalla schiavitù del peccato e del male, molto più grave e distruttiva di quella egiziana (Es 12,27). Perciò avrebbe dato a mangiare la sua carne e a bere il suo sangue, per la vita del mondo, nella cena di Pasqua. Era anche il Servo del Signore di cui parlava Isaia, che, sette secoli prima, lo presentava come agnello mansueto “trafitto per i nostri delitti e schiacciato dal peso delle nostre iniquità” (Is 53,5-7). Tutto l’episodio richiama l’esperienza pasquale che proietta indietro fin qui la sua luce: l’evangelista ha contato tre giorni dal primo annuncio del Battista, perciò l’incontro avviene proprio il terzo giorno, il giorno del Risorto. Per di più ricorda l’ora precisa di quell’appuntamento tanto decisivo per lui: “Le quattro del pomeriggio”, un’ora dopo quella della morte di Gesù in croce (Mc 15,34).
Ogni incontro con Gesù ormai è un incontro con il Crocifisso-risorto, per chiunque. C’era di che incuriosirsi in questo annuncio pasquale anticipato, inaudito. Solo due dei discepoli inseguirono Gesù con una domanda personale: “Rabbì, dove abiti?”. E lui non diede il suo indirizzo, ma li invitò addirittura ad andare a casa sua: “Venite e vedete” (èrcheste kai òpseste) . Questa curiosa coppia di discepoli del Battista ricorda tanto la coppia di apostoli che la mattina di Pasqua corsero al sepolcro per “vedere” i primi segni e iniziare credere (Gv 20,2-10). Erano Pietro e Giovanni; qui invece sono Andrea, fratello di Pietro, e Giovanni. Siamo sempre sotto la luce del Risorto. Sta di fatto che i primi cercatori di Cristo furono due discepoli di Giovanni Battista, da lui stesso inviati. Questo conferma la magnanimità del Precursore, che non teme concorrenza (Gv 3,23-30). I due vennero dunque nel luogo dove Gesù dimorava e restarono con lui tutto il giorno. Dialogarono comodamente con lui e forse si fermarono tutta la notte fino al giorno dopo.
L’evangelista tace su quel colloquio, ma ci lascia la netta impressione che i due siano stati conquistati da Cristo. Da qui comincerà la sua esperienza di comunione fisica e spirituale con Gesù: “Abbiamo udito, abbiamo visto con i nostri occhi, abbiamo contemplato, le nostre mani hanno toccato il Verbo della vita” (1 Gv 1,1s). Non c’è conoscenza e fede senza esperienza personale, anche oggi per noi. Solo la parola, la liturgia, la preghiera personale ce la possono dare. Per Andrea l’esperienza di quel giorno fu entusiasmante, tanto che non poté fare a meno di comunicarla con calore a suo fratello Simone: “Abbiamo trovato il Cristo!”.
È la prima gioiosa confessione apostolica che apre il Vangelo, dove essa si moltiplicherà e si approfondirà di bocca in bocca. I due erano stati indirizzati a Gesù dal Battista, ora Simone è guidato direttamente da suo fratello. Gesù si serve della mediazione umana per comunicarsi: sono i fratelli nella fede che annunciano e confessano. Solo chi è conquistato da Gesù è capace di conquistare a Gesù i fratelli. L’evangelizzazione cristiana è proposta di esperienza, non costrizione. Fu quel gioioso annuncio che portò Simone a faccia a faccia con Gesù, a tu per tu nel senso più vero. Gesù lo fissò infatti negli occhi (emblèpsas), lo riconobbe e lo chiamò per nome, un doppio nome, quello umano e quello divino: “Tu sei Simone, figlio di Giovanni”, questo è il nome che ti ha dato tuo padre, ma il nome nuovo che ti dà mio Padre è quello di “Kepha”, cioè Pietro-Roccia.
Per ora Gesù non aggiunge altro, ma nella mente di Andrea e di Simone la prima idea che dovette balenare fu quella della pietra di Giacobbe a Betel, che nel sogno del patriarca costituì la base della scala che saliva dalla terra al cielo (Gn 28,10-19). Tanto più che Gesù vi alluderà poco dopo nella risposta a Natanaele, l’ultimo anello dei primi incontri con i suoi futuri discepoli (Gv 1,51). Come Pietro, tutti noi nasciamo conosciuti e segnati dal progetto di Dio. Nessuno nasce a caso o per sbaglio. Dio ha per noi un nome e un progetto positivo di vita (Ef 1,3-12). Sta a noi scoprirlo nella fede, per misurare su di esso la vita. In fin dai conti la ricerca di Dio è la ricerca di noi stessi, del significato della nostra vita, della nostra vocazione, del nostro destino. Ignorare Dio è ignorare il vero senso dalla vita, è un vivere alla cieca come a tentoni, col rischio di sciupare e perdere un bene così grande e insostituibile.