Tutto cominciò così, sembra dirci Marco con questo prologo del suo scritto. Ci sono tre libri nella Bibbia che si aprono con la parola ‘inizio’ (in greco: arché): il libro della Genesi, il Vangelo di Giovanni e il Vangelo di Marco. Il primo descrive l’inizio della storia del mondo creato da Dio, il secondo descrive l’inizio della storia della salvezza nell’eternità, mediante il Verbo di Dio che poi si fece carne, il terzo, quello che oggi leggiamo, descrive l’ingresso di Gesù nella vita pubblica. Domenica scorsa Marco ci ricordava la fine di tutte le cose, con il ritorno glorioso di Gesù; oggi ci ricorda l’inizio umile dell’opera di salvezza. Sia l’inizio che la fine sono il Vangelo di Gesù, il suo annuncio gioioso. La più antica predicazione cristiana (il kérygma) su Gesù iniziava dalla predicazione del Battista e andava fino alla sua Pasqua di morte, risurrezione, ascensione. Così risuonò nelle sinagoghe e nelle piazze della Palestina e del mondo ad opera degli apostoli.
Sono i limiti cronologici fissati da Pietro nel suo primo discorso da papa, al momento dell’elezione di Mattia al posto di Giuda. In quella circostanza invitava a scegliere un uomo “tra coloro che ci furono compagni per tutto il tempo in cui il Signore Gesù ha vissuto in mezzo a noi, incominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di tra noi assunto in cielo” (At 1,21s). Sono i limiti cronologici del Vangelo di Marco, che riporta la viva predicazione di Pietro. Qui troviamo per la prima volta la parola “Vangelo” ad indicare lo scritto che ha per oggetto Gesù, e costituisce la fedele riproduzione della predicazione apostolica. È il titolo del libro che stiamo aprendo. In esso viene indicato con chiarezza quale sia il contenuto dell'”annuncio di gioia” che ci viene raccontato: non ci viene narrata una serie di fatti più o meno edificanti, ma la persona stessa di “Gesù Cristo, Figlio di Dio”. È lui il grande protagonista del libro.
Marco si propone di farcelo conoscere per comunicarci la gioia della sua scoperta e quella dei primi credenti come lui. In questi titoli c’è già la completa professione di fede cristiana nata dalla Pasqua. Gesù di Nazareth è il vero Messia annunciato dai profeti e atteso da Israele, ma è anche il Figlio di Dio confermato tale dalla sua risurrezione e ascensione al cielo, dove siede alla destra del Padre (Mc 16,19). L’inizio del Vangelo di Marco anticipa già la sua conclusione. Cristo (Messia) è divenuto ormai il secondo nome esclusivo, inscindibilmente unito a quello di Gesù, dopo che Paolo li aveva già fusi nelle sue lettere. Ma come ha inizio la divina avventura del Figlio di Dio tra noi? Marco non deve inventarla, era già descritta in anticipo dai profeti perché fosse facilmente riconoscibile.
L’evangelista cita il profeta Isaia, in realtà il testo risulta composto da due riferimenti: prima è citato Malachia, poi Isaia, in forma cronologicamente rovesciata perché il primo è vissuto circa tre secoli dopo. È una specie di lettura unitaria a ritroso con la certezza che è il medesimo Spirito a parlare. Per il profeta Malachia (3,1.23), ultimo dei profeti scrittori, il messaggero che precede il Messia è Elia redivivo. Era scomparso senza lasciare traccia di sé nel deserto oltre il Giordano, rapito da un carro di fuoco; era però opinione comune che sarebbe tornato ad annunciare l’imminente venuta del Messia. Marco raccoglie questa tradizione fondata sul testo di Malachia e la applica chiaramente a Giovanni Battista. Questi, come conferma Gesù dopo la trasfigurazione, è il nuovo Elia che annuncia l’arrivo di Cristo (Mc 9,13). Isaia colloca questo messaggero profetico nel deserto. La profezia fa riferimento al ritorno degli ebrei dall’esilio babilonese nel 358. È annunciato un nuovo Esodo, una nuova liberazione, questa volta dalla schiavitù del male. La voce misteriosa dell’araldo annuncia la venuta di Dio attraverso il deserto a capo del suo popolo, come un pastore alla guida del suo gregge.
La voce grida di preparare la via al Signore che torna nella terra con la sua gente. Quel Signore ora è Gesù, il Figlio di Dio annunciato sopra. Egli sta per venire a liberare l’uomo dal deserto del peccato per introdurlo nella terra di Dio, che è il suo regno. Riguardo al testo originale ebraico, qui è cambiata la punteggiatura: “Una voce grida: nel deserto preparate la via”, è divenuto: “Una voce grida nel deserto: preparate la via”. La citazione così modificata si adattava meglio al Battista, predicatore del deserto che si estendeva ad oriente del Giordano dirimpetto a Gerico, quello che gli ebrei chiamavano l’Arabah. Ma metteva anche Gesù più chiaramente in continuità con l’Esodo ebraico. Quel deserto infatti richiama il cammino percorso dall’antico popolo di Dio che stava per entrare nella Terra promessa. Con la venuta di Gesù cambia la scena: è lui che guida ora questo nuovo cammino di salvezza. Il Battista invita tutti ad accoglierlo spianandogli la strada. È il compito di ogni predicatore del Vangelo. Giovanni amministra un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Come lui stesso dirà, il suo battesimo è solo un segno di conversione per chi vuole cambiar vita, e lo esprime chiaramente.
Il successo del suo annuncio sta ad indicare che molta gente sente il bisogno di cambiare. C’è un disagio nascosto, anche in tanti di noi, che attende solo l’occasione di esprimersi. Manca forse il richiamo forte di un profeta credibile che ogni tanto Dio suscita nella sua Chiesa. Giovanni è una figura ascetica, un beduino dalla vita semplice e povera, come quella degli abitanti del deserto del suo tempo. Si nutre come loro dei prodotti di quella terra inospitale: le cavallette arrostite, il miele che le api depositano negli anfratti delle rocce, le radici di erbe; dorme sotto una tenda improvvisata, o in una grotta naturale, su una stuoia; si veste con una tunica tessuta con lana di cammello, porta una cintura di cuoio ai fianchi.
È anche la divisa che portava Elia otto secoli prima. È tutto proteso verso colui che deve venire e che egli annuncia di gran lunga superiore a se stesso: “Io sono un nulla, lui è tutto; di fronte a lui io mi sento meno di uno schiavo che lega o slaccia i sandali del padrone; il mio battesimo è acqua, il suo è Spirito santo”. Ogni credente dovrebbe assumere questo atteggiamento di umiltà e di piccolezza. Davanti a Cristo siamo una flebile voce che dura il fiato di un momento e presto si spegne. Una voce che ha senso solo se riesce ad esprimere e comunicare la Parola, quel Gesù in cui crediamo. Se la voce è solo un soffio che non comunica nulla, è fiato sprecato. Il mondo è pieno di credenti muti che non riescono a dire nulla con le parole e con la vita, voci che parlano in un deserto di sordi. Il Battista ci insegni ad essere voce udibile, che grida l’entusiasmo della sua fede in Colui che viene.