di don Angelo M. Fanucci
Risalendo in macchina per tornare a Gubbio dopo il primo contatto con la Comunità di Capodarco, anno del Signore 1970. Giorno 30 giugno. A sera.
Che senso ha avuto l’esperienza turbinosa che ho vissuto, quel ribollire di progetti di vita uno più futuribile dell’altro, formulati poi da gente che della propria vita fisica, ma anche mentale, ne domina solo una parte? Che senso hanno tutte queste provocazioni contro lo Stato, tutti questi imperativi categorici rivolti alla Chiesa? Che cosa c’è davvero dietro quello che ho intravisto in quei 10 anni di vita che ho vissuto concentrati nelle 7-8 ore che ho passato a Casa Papa Giovanni?
È vita, è tutta vita. Ma che tipo di vita, che razza di vita è questa? “È quilla che t’ha ’nsegnato lo Prinicpale tuo!”, m’ha detto Lucio. La vita che m’ha insegnato “il mio Principale”, Gesù di Nazareth.
Cioè? La riposta giusta lì per lì mi risultò incomprensibile. Poi però… Il primato dei poveri, che il Concilio ha sancito come normalità assoluta della prassi vitale della Chiesa, ha avuto tante formulazioni. Formulazioni concettualmente elaborate, sistemate dal punto di vista teologico in relazione al Deus creans, o al Deus elevans, o al Rex tremendae maiestatis, qui salvandos salvas gratis dell’ultimo giorno, quando tutto sarà al posto che da sempre gli competeva.
Ma nel clima culturale di Casa Papa Giovanni la concettualizzazione è difficile, per ovvi motivi: quasi tutti i disabili protagonisti hanno spuntato appena la quinta elementare. Bisogna parlare utilizzando non le idee astratte, ma la storia. La storia. La vita in termini di storia, E in termini di storia – dicono loro – il mio (il nostro) “Principale” per 30 anni ha condiviso la vita degli ultimi della scala sociale e poi, per tre anni, da predicatore itinerante, ha spiegato che la condivisione è il valore fondamentale della vita.
Effettivamente i nazaretani erano gli scemi d’Israele. Lo dice il motto col quale Natanaele reagì a Filippo che gli aveva parlato di un certo Gesù come possibile Messia. “Da dove viene?”. “Da Nazareth”. Risata grassoccia: “E quando mai è venuto qualcosa di buono da Nazareth?!”.
Gli è venuta dal cuore, ma non se l’è inventata lui. È un proverbio che circola, forse da secoli. Un proverbio. Lo dicono tutti. “E quando mai è venuto qualcosa di buono da Nazareth?”.
Trent’anni. Ha fatto il falegname, ha zappato l’orto, ha potato la vigna, ha aiutato sua madre a rigovernare. È uno di loro. E quando rivelerà di non esserlo, uno di loro, fino in fondo, tenteranno di ucciderlo.
Trentatré. Tenta più tre. Riassumere poi tutto l’insegnamento di quegli ultimi tre anni nell’invito a condividere tutto è certo un’angolazione parziale, ma essenziale.