Con il brano dal Vangelo di oggi si apre il resoconto matteano di una serie di discussioni tra Gesù e i suoi avversari che percorrerà tutto il cap. ventiduesimo del primo Vangelo. Si inizia da una diatriba con i farisei e gli erodiani (Mt 22,15-22), si passa poi a quella con i sadducei (23-33), fino a quella con un dottore della legge (34-40); l’ultimo scontro sarà ancora con i farisei (41-46). Gli argomenti sono i più svariati, ma sono tutti centrati sull’interpretazione di alcune parti della Scrittura. Nella tradizione giudaica, per poter interpretare e capire la Torah, la Legge, sia gli studenti (i talmidim) sia i maestri (i rabbini) sono abituati a confrontarsi tra di loro con questioni e dispute, anche in modo acceso: l’apprendimento della Parola di Dio non è mai un fatto privato per l’ebraismo (è addirittura sconsigliata la lettura della Torah a bassa voce!), ma avviene sempre attraverso un compagno o in un gruppo.
Così, non è raro vedere studenti che a coppie leggono il Talmud al Muro del pianto di Gerusalemme, o sentire un gran chiasso di voci nelle scuole rabbiniche, sparse per le vie della città santa. Imparare la Bibbia, per un ebreo al tempo di Gesù, significava discutere animosamente; il maestro non teneva mai una lezione cattedratica, gli studenti prendevano parte con domande e questioni, come dice un rabbino: “Molta Torah ho imparato dai miei maestri. Più che da loro imparai dai miei colleghi, e soprattutto dai miei scolari” (Makkot 10a). Il modo con cui i farisei si rivolgono a Gesù, allora, è simile a quello con cui si sarebbero rivolti a qualsiasi altro rabbi, interrogandolo circa una questione sulla Torah: “Rabbi dicci il tuo parere” (Mt 22,17). Qui infatti abbiamo a che fare la Legge, e con il modo per poterla vivere: la formula tecnica usata per aprire la domanda (“È lecito o no?”, Mt 22,17), sottende la domanda: “La Legge di Dio permette o no che…?”. Pensiamo al Battista, che diceva ad Erode: “Non ti è lecito (secondo la Legge) tenerla” (Mt 14.4).
Ma nel nostro racconto di oggi c’è qualcosa di più di una semplice discussione tra esperti della Legge: i farisei vogliono cogliere in fallo Gesù, e con un atteggiamento falso e lusinghiero lo provocano volutamente (“sei veritiero e insegni la via di Dio”). Gesù capisce subito che questi sono mossi da ragioni pretestuose (“conoscendo la loro malizia”) e non sono interessati alla verità, ma a farlo cadere in trappola. Questo modo di fare è spesso presente anche nelle nostre discussioni, quando siamo chiusi al dialogo, e ci facciamo prendere dalla rivalsa o dalla voglia di averla vinta. Pensiamo anche alla litigiosità che purtroppo attraversa oggi il mondo politico italiano, e che ci fa pensare come pochi si interessino al bene comune, cercando invece il proprio tornaconto. Ogni volta che discutiamo, anche su cose sacre, anche della nostra fede, se lo facciamo con un doppio intento siamo ipocriti, cfr. Mt 22,18) ed è Satana che ci ispira: la parola “malizia”, in 22,18 (“Gesù, conoscendo la loro malvagità”), ponerìa, ovvero “malvagità”, “male”, è un termine vicino a quello che usa proprio Matteo nella preghiera del Padre nostro: “liberaci dal poneròs” (Mt 6,13), cioè dal male, oppure dal Maligno.
La questione in oggetto, la tassa da pagare a Cesare, è particolarmente spinosa (come di fatto è quasi sempre quando si ha a che fare con i soldi): riguarda il census, che i cittadini adulti della Giudea, Samaria ed Idumea dovevano all’imperatore a partire dal 6 d.C. Il tributo si versava con una moneta speciale, che recava l’immagine dell’imperatore, e forse per questo nella domanda dei farisei poteva anche esserci qualche tranello sull’interpretazione del precetto della Torah sul non fare immagini d’uomo o di qualsiasi altro essere (cfr. Es 20,4); ma qui il problema è soprattutto politico. Se Gesù avesse risposto che è lecito pagare il tributo, sarebbe stato accusato di collaborazionismo con gli occupanti romani; se avesse risposto che non si deve pagare la tassa, sarebbero stati i romani, questa volta, a considerarlo un pericoloso rivoluzionario.
Gesù non si può sottrarre dal rispondere, come nessuno di noi può esimersi dal votare e dal partecipare alla vita politica: una posizione deve essere presa, anche a costo di pagare un prezzo, di compromettersi. Cesare e Dio sono i protagonisti di questi ultimi giorni di Gesù a Gerusalemme, e anzi si ritroveranno idealmente a fianco al processo di Gesù, quando la sua condanna a morte sarà decretata da un funzionario dell’imperatore, ma sarà anche il risultato di un intreccio di politica e religione dove è difficile distinguere le responsabilità. I farisei, che qui “tengono consiglio” per affrontare Gesù, sono una premonizione di quel consiglio di morte che si terrà proprio nel giorno della condanna di Gesù (cfr. Mt 27,1).
La risposta di Gesù è disarmante, e significa che “l’obbedienza a Cesare, in materia di governo e di amministrazione civile, è di per se stessa obbedienza anche a Dio; ma in tutti quegli ambiti in cui Dio ha fatto conoscere la propria volontà, cioè nella Torah, si deve obbedire a Dio piuttosto che a Cesare” (Mello). È questo il caso di quelle leggi ingiuste (come quelle contro la vita – si pensi alla legislazione che permette l’aborto – o contro la legge naturale) verso le quali il credente può opporre l’obiezione di coscienza. Gesù non è un rivoluzionario, come gli zeloti che nella Palestina del suo tempo cercavano di rivoltarsi contro Roma; il Messia voleva che i credenti in lui fossero piuttosto il sale della terra. I cristiani si sono basati sui suoi insegnamenti per poter vivere nella società, e cercare di cambiarla, da dentro, come l’anima del mondo.